Ci eravamo
sistemati vicini a degli altri, in un angolo ancora libero della grande aula
magna della facoltà di Lettere, occupata da un mese dal movimento degli studenti,
ed avevamo steso sul pavimento i nostri modesti sacchi a pelo, costituendo un
giaciglio abbastanza accettabile dove passare la notte. Il giorno seguente, ed
eravamo lì soltanto per quel motivo, si sarebbe allungata lungo le strade di
quella Bologna quasi assediata, un’importante manifestazione di cui già alla
vigilia si era parlato sopra ai giornali in termini terrorizzanti, immaginando
gli scontri e le violenze che ci sarebbero state, previsioni risultate non del
tutto fondate, rispetto all’importanza del momento di cui si sarebbe poi parlato
per mesi, forse anche di più.
In
tutti i modi ci eravamo sistemati lì, io e la Rita, e ci era quasi parso di
avere raggiunto un grande obiettivo solo per essere davvero durante quei giorni
in quella città, insieme a tutti coloro a cui ci sentivamo vicini. Avevamo
girato in lungo e in largo le strade e le piazze, per assaporare a fondo il
momento, sentirci parte di un insieme di cui ripassavamo mentalmente le idee, le
voglie, ogni intuizione, come fossimo tutti al cospetto della fondazione del
nuovo.
Più
tardi ci eravamo sdraiati, in silenzio, con le luci al neon spietate lungo i
soffitti, formando cuscini con i nostri vestiti: io mi ero messo fermo,
sdraiato, ad osservare una piccola parte del pavimento vicino al mio viso, come
cercando un’immagine macro di qualcosa che sentivo dentro di me, ma che forse
non riuscivo del tutto a comprendere. Poi mi ero accostato alla Rita, lei aveva
detto qualcosa, ci eravamo stretti come cercando di darci a vicenda una forza
maggiore, e quel gioco infantile di sciocca e leggera intimità, ci era parso improvvisamente
qualcosa di estremamente importante, forse addirittura degno di essere salvato
in mezzo ai fatti storici fondamentali a cui la nostra nazione stava
assistendo.
Qualcuno
continuava a suonare e a cantare da qualche parte nei corridoi e nelle altre
aule, altri parlavano a voce forse troppo distesa, come fosse inutile cercare
di dormire in un momento del genere: troppo febbrile la preparazione di tutto,
troppo importante ciò che stava accadendo. Alla fine chiusi i miei occhi, con
un braccio disteso fuori dal mio sacco a pelo, fino ad abbracciare la Rita,
come una certezza importante, vicino a me, una presenza della quale probabilmente
non avrei potuto fare a meno durante quei giorni. Ricordo di avere pensato
qualcosa in quegli ultimi attimi, qualcosa che tradotto in semplici parole,
poteva essere più o meno così: scriverò un racconto su questo, domani, o quando
avrò tempo; dovrò ricordare il sapore di quello che sento, il significato di
quello che vedo, il suono di quanto riesco e riuscirò ad ascoltare.
Ecco,
sono trascorsi forse troppi giorni, troppi anni e addirittura decenni, per non
risultare adesso un comportamento spudoratamente nostalgico, ma il racconto che
pensavo era questo, e anche se forse non ne valeva neppure la pena, non ha
alcuna importanza: ho compiuto un atto che mi ero ripromesso di fare.
Bruno
Magnolfi
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