Ronny
sottovoce aveva detto frettolosamente qualcosa a Ferdinand, qualcosa che
Stephen non era riuscito a comprendere, percependo soltanto la leggerissima
risata di quest’ultimo, ma tutto ciò gli era già sembrato sufficiente per
sentire anche dentro di sé un pizzico di buon umore. Gli piaceva stare lì ad
attendere il sonno, tutti e quattro coricati ognuno nella sua branda appoggiata
ad una parete diversa, in quella stanza assurda che a volte pareva addirittura sufficientemente
spaziosa. Dalla finestra arrivavano i rumori della strada, e questo lo faceva
sentire vivo, immerso dentro alla città, dove le cose succedevano, e tutto
assumeva importanza, come una grande macchina in movimento, un meccanismo a cui
forse partecipavano addirittura loro quattro, durante tutto il giorno, ma che
funzionava inevitabilmente anche di notte, mentre continuavano a dormire.
Si sentiva
bene, Stephen, a stare lì sdraiato ripensando alle ore del suo monotono lavoro,
immaginarsi tutte quelle persone che generalmente incontrava per strada e che
proseguivano a guardarlo, ma soltanto per un attimo, giusto forse per rendersi
conto se da lui poteva arrivare una minaccia oppure no. Coglieva spesso, come
un messaggio chiaro e incontrovertibile, il senso di estraneità che gli
presentava quel mondo in cui comunque cercava con sforzo di rimanere immerso, e
la differenza tra lui e tutto il resto, gli appariva spesso sempre più grande e
irriducibile. Brian tra loro, era invece quello che sembrava più integrato: si
addormentava subito quando si sistemava nel suo letto, sembrava non avere mai
preoccupazioni, e al mattino si svegliava già con la voglia di uscire ed
incontrare la città.
Stephen invece
stava lì, una volta spenta la luce, ad ascoltare il respiro regolare dei suoi
coabitanti, come fosse quello un elemento di conforto, quasi una protezione dal
resto, e poi un’intimità che non trovava in nessun’altra parte della sua
giornata, anche se lui aveva conosciuto gli altri solo da poco. Quei rumori
della strada, ascoltati da dentro quella camera, sembravano sempre positivi,
quasi porzioni di un mondo ostile ma che in qualche maniera stava salvando
tutti e quattro, anche se in modi diversi, e a lui riservava un ruolo, un
compito preciso, che gli sembrava serio ed importante, quasi un incoraggiamento
a proseguire così.
Loro quattro
non si vedevano mai fuori da lì, e in quella stanza dormitorio, l’unica che
potevano permettersi, non parlavano quasi mai dei problemi di ciascuno: ognuno
conservava per sé i propri guai e i propri pensieri; e così avevano semplicemente
stabilito degli orari in cui coricarsi, o comunque mantenere il più possibile
il silenzio, e tutti si attenevano a quella regola precisa. Il resto era lavoro
e sofferenza, quasi sottrazione del pensiero riferito ad un futuro che non
fosse appena la giornata che seguiva. Certe volte a Stephen pareva proprio che
non ci fosse niente nella vita delle persone come erano loro, che avevano per
abitare soltanto quella stanza, e non potevano permettersi neanche un amico,
perché di ciascuno c’era da guardarsi, anche là dentro, e così era meglio
parlare poco e fingere di avere solo da badare ai fatti propri. Eppure gli
sembrava doveroso andare avanti, spingersi oltre quelle giornate insulse,
quegli attimi privi di qualsiasi colore.
Così si era
voltato di nuovo sotto alle sue semplici coperte, aveva ascoltato il respiro
regolare della stanza e della strada, e si era sentito bene, ancora una volta, immaginando
il sonno che stava giungendo su di lui, come fosse quello l’elemento principale
per cui vivere.
Bruno Magnolfi
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