Mi
gira la testa, dice la donna mentre sta in piedi sulla grande terrazza all’ultimo
piano di quel grande palazzo dove abita da quasi due anni. L’altra, vicino a
lei, la osserva per qualche momento in silenzio; abita anch’essa in un
appartamento di quel caseggiato, e loro due si incontrano lì, certe volte,
durante qualche pomeriggio di sole, in quel grande spazio condominiale da dove
si ammira una larga porzione della città, dove parlare diventa un esercizio estremamente
piacevole, e i discorsi si fanno leggeri, scorrevoli, e forse, proprio per
questo, spesso anche importanti. Lei si siede sulla vecchia panca di legno
accosto al muretto, e si tiene per un momento la faccia dentro le mani,
immobile, cercando di capire che cosa le stia succedendo. L’altra le tiene un
braccio, come per darle un sostegno morale.
Poi
dice: ho il ciclo, in questi giorni, forse dipende da quello, e comunque, non
preoccuparti, mi sta già passando. L’altra allora l’abbraccia con intensità, e
le accarezza i capelli. Forse è la prima vera volta che si toccano in questa
maniera, però non c’è niente di male, pensa la donna. Non è molto tempo che
hanno iniziato a vedersi là sopra, a fumare una sigaretta nel debole vento, a
parlare e lasciar scorrere mezz’ora e certe volte anche di più. Infine si alza,
vorrebbe come scrollarsi di dosso qualsiasi malessere, ma l’altra va lentamente
a sedersi sopra la panca dove era stata lei fino ad allora. Lei si volta, a due
passi appena di distanza, la guarda, sente che è quasi un peccato rompere quella
sospensione piena di pensieri che adesso si è creata, così resta ancora in
silenzio.
Vorrei
che a te non succedesse mai niente di brutto; mi piacerebbe proteggerti, se
solo potessi, dice l’altra distogliendo lo sguardo. In fondo questo piccolo
spazio che ci siamo date è qualcosa che va ben oltre lo star qui a perdere
soltanto del tempo. E’ vero, pensa lei restando con il fiato sospeso, senza trovare
il coraggio per confermare le parole appena ascoltate. Se ci riflette, vorrebbe
forse darle un segno della sua amicizia, dei suoi sentimenti di gratitudine, ma
non le piacerebbe che venissero scambiati per altro, così cerca di assumere un
atteggiamento leggermente distante, come se i loro comportamenti dovessero
restare su un piano più impersonale.
L’altra
si alza, con lentezza, le va vicino, le sfiora una mano. Senti, dice lei con
voce bassissima; non vorrei che tu maturassi delle aspettative nei miei
confronti. Silenzio. Poi, quasi come uno sbaglio, sente una lacrima scenderle
piano lungo una guancia; forse non vorrebbe sentire questa intensità, ma in
fondo ci sono molte cose tra loro, inutile e assurdo negarlo, perciò sente
tensione nell’aria, sa perfettamente che al punto in cui sono arrivate, una
frase sbagliata potrebbe decidere del loro continuare o meno a vedersi così.
Non sto bene, dice ancora; ma non so dirti quale sia il vero motivo. L’altra
allora si gira, appoggiandosi al corrimano, a guardare la città che si muove e
che pulsa. Dice: non preoccuparti di nulla, ti capisco, non dobbiamo neppure parlarne
ulteriormente. Va bene in questa maniera, non dobbiamo cercare altre cose.
C’è
un’appendice alla loro intimità, dopo queste parole dettate dalla saggezza: ambedue
indulgono nella loro posizione, restando a distanza così ravvicinata; poi si sfiorano
il viso con il viso, le labbra con le labbra, e infine sorridono. No, non c’è
niente di male nel pensare di volersi bene, niente che debba essere giudicato.
Bruno
Magnolfi
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