Dopo
la fine del primo turno di lavoro, ed una volta iniziato ormai il secondo, in
questa casa di cura c’è sempre un po’ di tempo in cui generalmente nessuno sembra
più cercarmi, come se tutti all’improvviso si dimenticassero di me, lasciandomi
completamente libero di andare ad infilarmi in questo spogliatoio deserto del
terzo piano, per restare qui da solo almeno una mezz’ora. Mi immobilizzo
volentieri nel silenzio ovattato di tutti gli armadietti, tra le sedie di
plastica e la finestra luminosa proprio sul fondo, alla quale però mi avvicino
solo con circospezione, per paura di essere notato da qualcuno che per caso
sollevi lo sguardo dal parcheggio qui di fronte. Mi prendo una pausa, ecco il
punto, non ci vedo niente di male.
Stamani c’è stata confusione, in
tre abbiamo dovuto immobilizzare uno dei gravi, tenendolo con le mani sulla
schiena mentre gridava e si contorceva, poi siamo riusciti a fargli l’iniezione
e a metterlo sul letto. Ma adesso non vorrei pensare questo: mi piace sentire
sulla pelle l’aria ferma e calda che c’è qui, in questa stanza. Le foglie degli
alberi in giardino riverberano la luce, ed io mi metto seduto accanto ad un
termosifone, giusto per chiedermi dove starà mai il limite dell’uomo e del
pensiero. Certe volte qualcuno degli ammalati mi fa pena, vedo i suoi sforzi,
la voglia di comunicare qualcosa di difficile; poi mi chiedo se in condizioni
un po' particolari non sarei finito anch'io qua dentro insieme a loro, nella
zona dei degenti senza possibilità di guarigione. Li osservo certe volte, e in
fondo mi sembrano esattamente come me.
Poi mi muovo sulla sedia, ho
sentito forse un rumore fuori della porta, lungo il corridoio. Mi piazzo subito
in piedi, apro il mio armadietto, devo pur giustificarmi nel caso passi da qui uno
dei medici. Mi avvicino alla porta, resto in ascolto, sto attento ad ogni più
piccolo rumore: mi piace interpretare ciò che si sente, anche ogni debole alito
di vento. D’improvviso entra il primario, mi scruta, spiega subito che se lo
immaginava di trovarmi proprio qui. Dice che non va bene che mi assenti mentre
magari i miei colleghi hanno qualche difficoltà.
Cerco di spiegargli che era
soltanto per un attimo, volevo giusto controllare qualche cosa, ma lui mi
incalza, dice che lo sto prendendo per uno stupido, che sa benissimo cosa stia
facendo. All’improvviso provo un senso estremo di sgradevolezza per la persona
che ho davanti: proseguo a piagnucolare mentre a lui non interessa proprio
niente di tutte le mie scuse e di tutto ciò che riesco a dirgli; così mi muovo sulle
gambe senza più neanche guardarlo, come cercando di sfuggirgli, ma lui mi para
la strada, mi fronteggia, non mi lascia neppure uno spiraglio per respirare.
Perdo il controllo, penso che
potrei ucciderlo se avessi un’arma, eppure non vorrei toccarlo, mi fa ribrezzo
la sua faccia, l’espressione, quel suo corpo da grande professore, con il
camice pulito e ben stirato, quei capelli pettinati e quegli occhiali tutti
lucidi. Mi mordo una mano mentre ringhio, lui continua ad irritarmi, io stringo
più forte, mi faccio uscire il sangue. Infine mi strappo la camicia, urlo e
faccio a pezzi tutto quello che le mie mani riescono a ghermire, e lui neppure
mi frena, anzi lascia che io continui a dare compimento a tutte le mie azioni.
Cado a terra, mi copro il viso con
le mani, e resto in questo modo, nell’attesa che tutto ormai precipiti, che
accada così l’inevitabile, che mi trascinino via, mi facciano anche a me un’iniezione
di tranquillante. Trascorrono i minuti, mi calmo, torno ad aprire gli occhi e
mi accorgo che sono solo nello spogliatoio, non è successo niente di quello che
avevo immaginato. Quando torno a rimettermi in piedi, mi accorgo di tremare:
siamo tutti uguali, torno a pensare; siamo tutti con qualcosa fuori posto,
convinti di essere perfetti, razionali, degni della stima di ogni altro.
Bruno Magnolfi
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