Seduto, senza
più alcuna voglia di risollevare le proprie sorti, fermo dentro al silenzio,
sembra quasi lui possa stare così per un tempo addirittura lunghissimo, come se
in natura non esistesse neppure un motivo plausibile per cambiare qualcosa di
questa semplice immobilità appagante e praticamente infinita. Sfumati rumori
fuori dalle finestre mostrano a tratti un senso vago di prosecuzione distante
di tutte le cose, eppure ciò che conta, alla fine dei tanti pensieri che
rotolano senza controllo, è solamente questo ovattato e pressante desiderio di
niente.
Marco Ferrario
in certi giorni cerca di evitare persino ogni ordinaria riflessione, lasciando
abbassare, per un naturale comportamento, le palpebre dei suoi occhi esattamente
nell’attimo in cui la sonnolenza si fa davvero persino troppo forte,
comprendendo benissimo quanto purtroppo le immagini della propria fantasia lo
portino subito verso strade terribilmente complesse, intricate, feconde di un
passato incoerente mal reinterpretato e disuguale di ciò che la sua memoria,
senza questi momenti da niente, potrebbe probabilmente proporre.
Non c’è niente
da ricordare, dice certe volte a qualcuno ripetendolo caparbiamente anche fra
sé. Gli viene servita alla solita ora la sua desiderata tisana appena tiepida,
proprio come lui la preferisce, e dal tavolo dove è stata appoggiata ne
raccoglie di buon grado la tazza, ringraziando naturalmente chi la offre, anche
se in sostanza il suo sguardo, identicamente in tutto quel tempo, resta volto
ad osservare avanti a sé soltanto qualcosa di impalpabile. Non c’è niente da
proporre, prosegue a pensare, se non questa mia presenza per tutti snervante ed
apatica, senza alcuna ulteriore definizione di sorta. Qualcuno lo chiama dal
corridoio, Ferrario riconosce forse il tono di voce, lentamente si volta e
saluta con un cenno uno dei suoi conoscenti che cerca in certe giornate di
frequentare di più. Come va oggi, chiede quello usando l’espressione
dell’esatta retorica che pone, e lui mostra soltanto il leggerissimo sorriso di
chi apprezza indubbiamente quella domanda, ritenendo però del tutto inutile e
addirittura scontata la risposta da dare.
Il pomeriggio
sprofonda in una serata monotona e pressappoco uguale a qualsiasi altra, con
delle variazioni di luce nell’aria che si materializza come un’aureola attorno
alle chiome degli alberi fuori dai vetri, e nel corso dei minuti sempre più
angusta ed impercettibile. Nel salone dove sta posizionata la sua carrozzella a
quell’ora c'è sempre abbastanza silenzio, almeno fino a quando gli altri
anziani del centro si trattengono tutti a chiacchierare delle medesime cose
nelle salette da gioco che rimangono attigue. Con una mano allora Marco
Ferrario sposta leggermente appena una ruota della comoda sedia su cui passa il
giorno, e d’improvviso immagina la sua assenza come una veloce dimenticanza che
può essere presto superata, tanto che adesso senza neppure pensarci decide di
muoversi, naturalmente non visto, e di percorrere il lucido pavimento di fronte
a sé per andarsi infine a rinchiudere, quasi per un auto castigo, dentro un piccolo
e buio stanzino di servizio. Lo cercheranno, suppone; anzi, sarà senz’altro
così, ma probabilmente questo non avverrà prima dell'ora di cena, quindi ne dovrà
trascorrere là dentro ancora parecchio di tempo, ed è comunque quasi certo che
nessuno almeno fino a quel momento si preoccuperà neppure un briciolo di questa
sua assurda assenza: sarà nascosto da qualche parte da solo, si dirà sottovoce
tra i corridoi, d'altronde da uno così non c'è da aspettarsi che questo.
Bruno Magnolfi
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