Osservo
ancora per un attimo sopra al cavalletto questo mio sofferto autoritratto, e mi sembra, proprio adesso che
oramai appare praticamente terminato, non sia
affatto capace di esprimere le caratteristiche che fin dall’inizio avrei voluto dare al dipinto mentre cercavo di
realizzarlo. Ci sono delle carenze, delle lacune,
degli errori di fondo, che ora noto con grande
evidenza: la mia espressione sulla tela ad esempio non riesce a trasmettere quasi nulla del tormento che
spesso provo nell’incapacità di somigliare ad
un qualsiasi normale individuo, ad uno come tutti, una persona qualunque, calata nella realtà che ci sta attorno. E poi non sono
stato capace di creare uno sfondo alla figura
minimamente realistico ed equilibrato con la
mia espressione, qualcosa che desse maggiore credibilità all’insieme,
senza contrasti, con estrema linearità; ed infine i colori, troppo tenui,
troppo delicati per essere all’altezza della fotografia di un’esistenza. Cosa
importa, rifletto meglio, probabilmente verrà apprezzato anche in questo modo;
anzi, probabilmente ci saranno persino degli estimatori che troveranno
nell’insieme qualcosa di notevole di cui nemmeno io mi sono accorto.
E poi che
cosa significa anche solo trasmettere qualcosa che si sente, se non lasciare
che sia il dipinto stesso a prendere la mano al pennello e dare da solo il
proprio punto di vista alle cose, senza filtri personali, senza grandi
interpretazioni psicologiche. Il fatto è che se anche mi osservo a lungo in uno
specchio, non vedo affatto ciò che gli altri guardano di me quando mi incontrano.
Sono sicuro di questo, perché rimane una differenza essenziale nelle cose: c’è
una pellicola fuori dalla mia persona che non permette la perfetta osservazione
di ogni mia espressione. Io so cosa ci può stare sotto la scorza, ma è
difficile se non impossibile comunicarlo. Quindi è persino inutile il tentativo
di infondere sopra la tela qualcosa che comunque sfuggirà sempre a chiunque, da
qualsiasi angolazione voglia guardare in seguito il mio quadro ormai finito.
Non c’è senso in tutto questo, non ci sarà mai alcuna prosecuzione.
Poi prendo
la giacca, esco dallo studio, ho bisogno d’aria, forse di riflettere, oppure di
incontrarmi con qualcuno che mi mostri il proprio punto di osservazione, il
proprio angolo visuale, la sua maniera di essere persona, proprio quella che io
non riesco adesso a ricalcare. Già, perché alla fine sono soltanto io ad essere
carente di qualcosa, ad aver alimentato per un tempo infinito l’incapacità
ormai congenita di stare al passo del momento, di questa concretezza che
modifica il nostro passo ad ogni attimo, e ci fa sentire subito diversi appena
cerchiamo di ignorarne anche i dettami meno importanti. Ci sono delle persone
per strada che mi riconoscono, sanno bene chi io sia, perché frequentano il
quartiere, il caffè dove mi reco, le mostre che vado a visitare qualche volta.
Non mi interessano però i loro elogi, l’inchinarsi alla fama, all’artista, a
colui che è capace nella loro fantasia di tradurre in segno dei semplici
pensieri o degli istinti. Li lascio alle spalle, non per superbia, quanto
perché non mi può aiutare in questo attimo lo sguardo edulcorato, l’espressione
ampollosa, il gesto falso di un ammiratore incapace di articolare il verbo
critico o la parola discorde. Perciò potrei ubriacarmi insieme ad altri dentro
una bettola, cantando a squarciagola e ridendo senza limiti; potrei camminare
in completa solitudine fino a farmi sanguinare i piedi; potrei immedesimarmi
nell’artefice di uno spettacolo di strada, osservando i dettagli dei suoi
comportamenti. Ma non riuscirei a risolvere il mio vero problema.
Torno allo studio, non mi rimane
nessun’altra possibilità, perché è lì che sta ancora la mia mente, è sulla tela
ancora fresca che si sono adagiate ormai le mie fattezze, ed il mio sguardo, la
mia espressione, tutto: solo là sopra posso trovare finalmente ciò che cerco.
Bruno
Magnolfi
Nessun commento:
Posta un commento