Ultimamente
sono perplesso. Il lavoro mi assorbe molto, a mio parere, persino troppo, e
divido la stanza vetrata dove rimango seduto tutto il giorno insieme ad altri
tre colleghi, in mezzo a telefonate e scambi di opinione tra le scrivanie, tanto
che certe volte quando esco dall’ufficio avrei soltanto voglia di starmene da
solo, anche se spesso, durante l’orario, mi infilo nel corridoio per muovere un
po' le gambe e far riposare la mente, magari mentre prendo un caffè alla
macchinetta. Ma quando rientro a casa mia, sento dentro di me una ripulsa che
non mi fa stare affatto bene. So benissimo che mia moglie è una persona
deliziosa, e che tutto ciò che fa e che dice è sempre allo scopo di lasciar
viaggiare al meglio tutte le cose di famiglia, eppure io certe volte non riesco
proprio a sopportare i suoi modi, quelle sdolcinature che mi paiono spesso
persino fuori luogo, quella maniera sempre sorridente di proporsi agli altri.
Con i miei figli ormai da anni non riesco più ad avere un vero colloquio, e tra
me e loro si riesce soltanto a dirsi qualcosa di essenziale perlopiù espresso a
monosillabi, senza neppure guardarci. Non so che cosa fanno di preciso durante
tutta la giornata, ma ho rinunciato da tempo ad interessarmi di cose del
genere, se non in termini superficiali. Rientro in famiglia al tardo
pomeriggio, ma vorrei stare da solo, riflettere su qualcosa che forse mi è
transitato per la testa durante l'orario di lavoro, e poi non dover sentire più
alcuna parola che venga articolata in mia presenza. Ciò che mi rivolta più di
tutto il resto, comunque, sono le domande. Da quelle più scontate:
<<com'è andata la giornata?>>, oppure: <<come ti
senti?>>; fino a giungere a cose tipo: <<che ti andrebbe per
cena?>>, o anche: <<perché non ti siedi e ti rilassi?>>.
Mi sento in colpa, in
molti casi, proprio per l'incapacità che manifesto nel rendermi socievole, però
è più forte di me quello che provo, e l'unica difesa che riesco a tirar fuori è
quella di chiudermi in un silenzio spesso ostinato, che immagino venga sempre
interpretato soltanto come nervosismo e semplice fatica accumulata durante la
giornata. Che male c'è, penso talvolta; probabilmente tutti gli altri, in un
caso come il mio, sono esattamente come me, ognuno chiuso dentro al proprio
modo di reagire, ma io non riesco a togliermi di dosso proprio del tutto la
sensazione di sapermi inadeguato, incapace di comportarmi come forse sarebbe
più giusto. Anche durante la cena, quando ci riuniamo per quella striminzita
mezz'oretta, replicando forse un'usanza probabilmente da famiglia patriarcale,
non riesco a fare altro che concentrarmi appena in ciò che addento, assaporando
ogni boccone senza comunque tirar fuori alcun commento. Anche se nel piatto c'è
qualcosa che non gradisco troppo, evito accuratamente di dirlo o farlo capire,
in modo che non troppo facilmente si formino delle domande anche intorno a
questo argomento, oppure si sollevino delle richieste di suggerimenti o di
variazioni agli ingredienti del cucinato, naturalmente al fine di rendere a me
il pasto più appetibile.
Infine, tutti si
alzano da tavola, ed io al contrario resto seduto a fumare e a godermi qualche
attimo durante il quale immagino di essere lontano da questa consueta sala da
pranzo, magari in un luogo solitario, a sorseggiare il mio caffè di fine cena
circondato soltanto dal silenzio e dall'assenza. I miei figli hanno sempre
mille cose di cui occuparsi, e né l'uno né l'altro si sognano di sfoderare
qualche argomento difficile o spinoso quando siamo insieme, sia in mia
presenza, che tantomeno tra di loro. Forse è proprio questo ciò che manca
qualche volta: un vero tema su cui discutere sul serio, tirando fuori delle
argomentazioni, sia da parte di Marco che di Federico, che siano
improvvisamente capaci di interessarmi davvero, pur lasciandomi in disparte,
senza per forza che io debba avvertire il bisogno di manifestare a voce alta
delle opinioni. Sarei capace di ascoltarli, in casi del genere, ecco tutto,
magari distrattamente, senza prendere una posizione precisa, ma solo annuendo
qua e là alle loro affermazioni. Ma forse è meglio che stiano zitti come fanno
quasi sempre, e che io, pur sentendomi in colpa, prosegua ad indossare la
maschera di colui che "è di poche parole", e che “non riesce a tenere
in piedi una vera e propria conversazione”, come sicuramente pensano.
<<Achille>>,
dice poi mia moglie mentre già sono risucchiato dalle immagini che trasmette la
televisione. <<Domani ricordati di quello; e magari anche di
quell'altro>>, ed io vorrei tanto sbuffare, alzare la voce, dire che le
preoccupazioni sono esattamente ciò che in questo momento più di ogni altra
cosa vorrei dimenticare. Ma in fondo non ho voglia di polemiche, così annuisco
come faccio sempre, perché so benissimo che, se anche dovessi dimenticare
qualcosa di importante, non sarà sicuramente per questo che arriverà la fine di
tutto il mondo.
Bruno Magnolfi
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