venerdì 31 maggio 2024

Scelte obbligate.


            Mio padre, dal periodo in cui dalla ditta per cui lavora come autista gli hanno consegnato un autocarro nuovo, ha atteso ovviamente ancora qualche giorno, ma subito dopo mi ha portato con sé per farmi vedere tutte le attrezzature di bordo in quel mezzo, e per spiegarmi anche alcune caratteristiche importanti. Mi sono sentito orgoglioso di lui, era la prima volta che faceva con me una cosa del genere, e ritrovarmi con mio padre lì davanti su quel bestione rosso pronto a ruggire, mi faceva sentire una persona importante, al punto che ho pensato che avrei voluto fare il suo stesso mestiere quando fosse giunto il momento per poter scegliere. Sono comunque rimasto in silenzio per tutto il tempo, tanto mi sentivo emozionato, e quando siamo scesi dalla cabina di guida e mio padre ha chiuso a chiave gli sportelli, mi è parso che la giornata improvvisamente fosse magnifica, anche se lui non ha detto più niente, e siccome era domenica, mi ha fatto segno soltanto di andarmene a casa, visto che lui forse si sarebbe fermato all’osteria a bere un bicchiere con qualcuno degli uomini del paese di sua conoscenza e con cui forse voleva festeggiare l’autocarro nuovo. Per mia mamma invece non è cambiato niente, e difatti non ha fatto cenno alcuno al nuovo strumento di lavoro di papà, proseguendo come sempre a sistemare la casa e ad occuparsi del cucito, che dice d’essere il suo utile lavoretto per far arrotondare lo stipendio magro di mio padre. Non ho mai visto mia mamma troppo contenta di qualcosa: la sua giornata sembra sempre la medesima, a testa bassa a fare gli orli o a sistemare qualche vestito, oppure a fare le pulizie in tutta la nostra casa. Quando io sono nell’appartamento sbuffa, anche se sto seduto in un angolo in silenzio, e mi dice subito di andarmene fuori, che c’è il sole, e che lei ha da fare, che le sono soltanto d’impaccio.

            Io fingo sempre di essere contento di uscire, come se andassi incontro a chissà quali divertimenti, ma in realtà spesso mi limito a mettermi seduto su un gradino da qualche parte davanti alle abitazioni rimaste vuote, oppure su una pietra, e a starmene lì senza fare niente. Anche se passano davanti a me dei compagni di scuola che conosco, in genere rivolgo loro soltanto un cenno, come se stessi riflettendo su cose molto più importanti di ciò a cui loro prestano la maggior parte dell’attenzione, e spesso questo è anche vero, visto che tutti i ragazzi non riescono a impegnare la mente altro che dietro al pallone o ad altre cose stupide del genere. A volte qualcuno mi invita anche a seguirli, ad andare al solito campetto con gli altri a fare due scambi a calcio, oppure a sederci sulle solite altalene sgangherate e arrugginite lì vicino, ma molto spesso mi limito a rifiutare l’invito senza neanche dare una vera spiegazione. Ciò che a volte non comprendo affatto è il motivo per cui mia mamma non vuole che io resti troppo in casa, neppure per fare i compiti di scuola. È come se creassi un ingombro tra le stanze, che la mia presenza provocasse in lei un peso da portare, visto che invece, quando torna mio padre ogni domenica, tutto per lei diventa differente. Lo avrei compreso più avanti, tutto ciò, quando alla visita medica per il servizio militare mi dissero che ero orfano di madre. Protestai con il maresciallo che leggeva i dati, ma lui mi spiegò che non ci poteva essere un errore. Così compresi che ero stato cresciuto da una donna che non era la mia vera madre, anche se io l’avevo sempre chiamata mamma, e che lei non era riuscita ad avere per me tutto quell’affetto che in genere un genitore esprime per il proprio figlio.

Ma ai tempi della scuola ancora non lo sapevo, e comunque evitavo di pensare a cose del genere, e credevo che la mia mamma avesse solamente una personalità chiusa e particolare, e le piacesse occuparsi delle sue cose in solitudine, senza troppi disturbi. Solo all’età di vent’anni mio padre mi indicò dove stava seppellita la mia vera mamma, ed io ci andai da solo, senza riuscire a comprendere di me se stavo davvero provando della sofferenza, forse del rammarico, oppure solo un esile dispiacere per qualcosa che poteva essere andato davvero in altro modo. Stetti lì, davanti alla tomba di una persona che in fondo non avevo mai conosciuto, e di cui non sapevo quasi niente, visto che persino il ricordo di lei, da parte di mio padre, era stato in fretta accantonato. Avrei voluto piangere, forse disperarmi per una situazione tanto assurda quanto dolorosa per me, ma la cosa più complicata che sentivo dentro era data da tutte quelle variazioni di sentimenti verso le persone della mia famiglia che dovevo in ogni caso mettere un po' in ordine. Me ne andai da casa, poco tempo dopo, chiudendo alle spalle quella porta e senza lasciare dietro alcun rimpianto, anche se ero cosciente che quella che seguivo in quel momento non era certo una mia scelta.

 

Bruno Magnolfi

martedì 28 maggio 2024

Sospesa e inspiegabile.


            Lei per qualche tempo era stata una moglie. Non tantissimi anni prima, appena una decina o poco più, quando aveva conosciuto per caso un uomo affascinante, una persona che perlomeno era apparsa tale ai suoi occhi, e con cui aveva desiderato da subito condividere la propria esistenza. Ma lui dopo poco si era dimostrato differente da ciò che le era apparso in un primo momento, e già dopo qualche mese per loro due le cose avevano iniziato ad andare in modo quasi contrario alle aspettative che la donna aveva avuto. Non importa, aveva pensato lei, prendiamoci pure un periodo di riflessione, magari le cose si possono aggiustare con un po’ di calma, oppure si può scoprire semplicemente che scansando qualche piccola incomprensione tutto riprende a filare per il verso giusto. Ma l’andamento coniugale era addirittura peggiorato, e lo stato di prostrazione che ne era derivato per lei si era dimostrato talmente forte da portarla spesso a rimanere il più possibile fuori da casa. Era stato in quel periodo che aveva iniziato a frequentare dei bar, dei caffè, dei locali certe volte non molto eleganti, e in qualcuno di questi posti era stata avvicinata da uomini in cerca di avventure. Il marito intanto era andato ad abitare in un’altra casa, forse anche con un’altra donna, e per lei la sconfitta della solitudine che stava avvertendo in quel periodo si era praticamente dimostrata proporzionale alla sua disponibilità verso gli altri, tanto che per questo motivo diverse volte si era lasciata un po' andare. Agli inizi era stato divertente fare la donna di tutti, ma in seguito le cose si erano attorcigliate, fino a farle comprendere che il suo comportamento non poteva solo dimostrarsi una stupida rivalsa verso quella vita matrimoniale fallimentare in cui aveva trovato soltanto della scarsa comprensione nel tentativo di avvertire piena e completa la propria giornata.

            In qualche caso si era anche fatta pagare qualche prestazione sessuale, quasi per gioco, per divertimento, forse per giustificare meglio i suoi comportamenti, ma anche questo aspetto ogni volta non la faceva certo sentire molto meglio. Dopo il definitivo divorzio da suo marito il giudice decise che lei aveva diritto ad un mensile, e con quei soldi la donna era riuscita a tirare avanti senza grandi problemi. Ma la mancanza completa di una figura di riferimento, ed anche di uno scopo finale all’interno della propria quotidianità, non le avevano mai permesso di sentirsi tranquilla. Per questo aveva continuato ogni tanto ad uscire dalla sua casa durante la notte, camminando lentamente lungo le strade, e a scegliere qualche volta l’uomo da cui farsi possedere. Sapeva che poteva essere pericoloso il suo gioco, ma sentirsi desiderata da qualcuno, anche se per un breve lasso di tempo, era diventato poco per volta il suo modo per sconfiggere il senso di solitudine provato.

            Proprio in questo periodo si era fatta coraggio ed aveva suonato a tarda ora a quell’albergo, notando dietro alla porta vetrata un uomo da solo, con una giacca elegante, un portiere di notte, evidentemente, e così era entrata, magari semplicemente per fare due chiacchiere, o forse soltanto per conoscere un’altra differente solitudine. Non c’era necessità di chiarire e di spiegarsi, la sua presenza in giro da sola parlava per sé, e lui difatti non le aveva chiesto nulla, limitandosi ad offrirle qualcosa nella piccola caffetteria del piano terra. Lei gli aveva sorriso, si era seduta davanti a lui, poi lo aveva ringraziato, ed alla fine se n’era andata, scivolando fuori da lì senza null’altro, soltanto trattenendo la sensazione di una vicinanza di carattere. Poi era tornata, durante un’altra notte, e tutto si era svolto nella stessa esatta maniera. Ciò che si era dimostrato piacevole, esattamente come la prima volta, era il fatto che lui non le aveva rivolto alcuna domanda, e lei aveva mostrato solo qualche sorriso.

            Forse su queste basi poteva nascere una conoscenza, quasi un’amicizia tra di loro, quasi una complicità, ma forse a tutt’e due era sembrato fosse sufficiente già così, senza pretendere nient’altro. Poi lei aveva incontrato il ragazzo. Era un bambino, una figura smarrita, una persona che non riusciva a dimostrarsi capace di affrontare da solo la sua età e in suoi piccoli problemi. Erano andati assieme dentro l’albergo, quasi come fantasmi pronti a muoversi dentro la notte in modo leggero e senza spiegazioni, e lei aveva compreso che tra il ragazzo ed il portiere c’era solamente uno sbalzo di anni che li rendeva in apparenza differenti, ma in realtà uniti in una medesima persona, testardi nell’imputare l’uno all’altro la responsabilità dei loro piccoli o grandi fallimenti. Non aveva mai conosciuto in nessuno una capacità del genere, quella di rendere così concreti e veri i propri ricordi, ma questo comportamento la lasciava esterrefatta, incredula, affascinata da qualcosa di così forte e di così importante. Non c’era un futuro da immaginare, soltanto un presente intriso di pensieri e di piccole amarezze, e tutta la faccenda sembrava destinata a restare sospesa ed inspiegabile.

 

            Bruno Magnolfi       

venerdì 24 maggio 2024

Nuova giornata.


            Con lo sguardo offuscato da un evidente principio di stanchezza, mi appoggio al bancone del ricevimento, mentre svolgo il turno di notte al portierato dell’albergo dove lavoro, e all’improvviso, senza averne avuto in precedenza neppure un sentore, mi trovo davanti questa strana prostituta che oramai conosco da tempo, la stessa che viene ogni tanto a trovarmi e a prendersi un caffè prima di tornarsene a casa, mentre è assieme alla familiare figura del solito ragazzetto che ero io ai tempi della scuola, i due tenendosi per mano come fossero dei vecchi conoscenti. Sollevo le braccia dal piano lucido e cerco di comprendere come sia possibile che i miei ricordi d’infanzia si siano mescolati in questo modo con il presente, ma attendo per diversi attimi l’eventuale spiegazione diretta fornita dalle loro stesse parole, se avranno la bontà di spiegarmi qualcosa. <<La tua solitudine ci opprime>>, dice la prostituta che stanotte sembra vestita in maniera piuttosto elegante e meno vistosa, quasi come se fosse reduce da una serata a teatro, o magari da una cerimonia importante, oppure un incontro con persone di alto livello sociale. Paoletto resta momentaneamente in silenzio, però adesso mi osserva, come se volesse tradurre con la sua stessa espressione qualcosa che le parole non riescono necessariamente a spiegare. Mi alzo con grande lentezza, esco da dietro al bancone, e poi cerco di chiarire che non era assolutamente mio desiderio far preoccupare qualcuno.

            Trascorre qualche momento in cui tutto sembra sospeso, infine mi accorgo che c’è una membrana che divide la mia persona da loro due: un sipario trasparente che ci rende lontani, anche se rimaniamo soltanto a pochi passi di distanza. Quindi un rumore sottile mi sveglia del tutto, e mi ritrovo di nuovo davanti alla scuola di Via delle Matite, intento ad osservare la facciata della costruzione mentre sembra sia appena suonata la campanella dell’ora di ingresso, tanto che gli ultimi ragazzi si stanno affrettando a salire i pochi gradini e sparire svelti all’interno del pesante portone. Mi nascondo agli occhi del custode, mentre sulla soglia lui prosegue a controllare che tutto si svolga in maniera regolare, salutando insegnanti e bambini, ed io, che mi sento riparato dalla robusta recinzione tutt’attorno all’edificio, decido di non entrare, e che oggi non è la giornata giusta da trascorrere in classe. Prendo per una piccola strada sul retro, ed arrivo rapidamente a costeggiare alcune case basse in apparenza deserte, mescolate ad altre ancora in costruzione, ma dove non si intravede nessun operaio al lavoro. Infine, lungo dei tratti di terreno incolto e lasciato infestato da polvere ed erbacce, giungo sul margine del piccolo torrente che scorre senza fretta tra sassi e cespugli.

            Quando mi siedo sopra una pietra, mi accorgo che probabilmente mia madre verrà presto a sapere che stamani non sono entrato dentro la scuola, ma in ogni caso non mi sembra che questa sia la cosa maggiormente importante. Forse vorrei disegnare, oppure leggere un libro, o magari ascoltare qualcuno che parla, che mi racconta di sé, dei suoi desideri, della sua vita, di tutto quello che potrebbe passargli in questo esatto momento dentro la testa, come la poca acqua davanti ai miei piedi, che prosegue ad andarsene chissà verso dove. Poi prendo la testa tra le mie mani: il punto essenziale è che non so cosa sia meglio fare, non so quale sia il comportamento più adatto per me, non capisco cosa ci sia che non mi faccia essere nella stessa maniera di tutti gli altri ragazzi della mia medesima età. Quando infine decido di andarmene a scuola, ormai è trascorsa metà della mattina, e suonando al portone giunge il custode ad aprirmi, con un’espressione seria e meravigliata. <<Non credo che la maestra ti ammetta in classe, a quest’ora>>, mi dice, ma io replico: <<Posso provare>>, e così lui mi accompagna paziente fino all’aula in fondo al corridoio. Entro, e dico subito, restando fermo in piedi: <<Ho dovuto fare un giro in fondo al paese, non mi ero accorto di aver fatto così tardi>>.

            La maestra non dice niente, ed anche i miei compagni mi guardano e basta, tanto che alla fine lei mi fa cenno di sedere al mio solito banco. Appoggio i quaderni e l’astuccio, ma ho una gran voglia di piangere, di urlare che non sto bene, che c’è qualcosa di strano dentro di me che mi fa essere così come sono, ma nello stesso momento mi ritrovo ancora dietro al bancone del ricevimento, nel solito albergo, vestito di camicia bianca e di giacca blu scuro, come è previsto dalle regole imposte dal direttore. <<Paolo!>>, mi dicono in classe chiamandomi indietro, per farmi tornare da loro, ma io so che tutto questo non ha assolutamente alcun senso, così resto a guardare l’ampio ingresso dell’albergo, con le sue porte vetrate ben chiuse di fronte alla notte della città, ed attendo paziente che scorrano anche queste ore che mi separano dalla mattina, come per ogni turno che compio, prima di potermene tornare verso la mia abitazione, forse per decidere qualcosa da fare della nuova giornata.

 

            Bruno Magnolfi     

martedì 21 maggio 2024

Accaduto davvero.


            Sono entrato nell’aula scolastica dietro le spalle della maestra, ed ho atteso paziente che lei si sedesse alla cattedra, e che tutti quei ragazzi di fronte si accomodassero nei loro rispettivi banchi. Naturalmente in mezzo a quelle tante espressioni diverse ho cercato subito Paolo con lo sguardo, e l’ho notato intento a sistemare qualcosa tra suoi quaderni e tra le tante matite. In seguito, lui ha alzato gli occhi su di me, come mi vedesse per la prima volta, e d’improvviso ha detto con voce alta: <<Non ho niente da dirti!>>, senza che nulla di particolare ne giustificasse sia quella uscita né tantomeno quelle sue quasi enigmatiche parole. La maestra si è alzata dalla sua sedia con i braccioli, lo ha osservato un momento, poi gli ha chiesto con calma che cosa intendesse dire, e soprattutto a chi si riferisse, rivolgendosi al ragazzo ora intimidito e con la sguardo basso, ma lui si è giustificato con delle parole confuse e comunque chiedendo subito di essere scusato per il suo gesto nervoso. Io sono rimasto quasi immobile accanto alla parete, pur invisibile a tutti, ma mi sono reso conto di aver commesso un imperdonabile errore nello spingere i miei ricordi fino a quel punto.

            Poi la lezione è iniziata, io mi sono mosso lentamente nell’aula, ma senza mai andare troppo vicino al banco di Paolo, nella paura di suscitare in lui qualche altra reazione negativa, pur accorgendomi della forte attenzione con cui seguiva ogni parola della sua insegnante. Infine, approfittando dell’arrivo del custode venuto a consegnare una circolare della direzione, sono uscito dall’aula e poi dalla scuola, ritrovandomi in Via delle Matite esattamente come la ricordavo, con quell’aria di polvere fina in sospensione nei raggi del sole, appena al di sopra dei tetti delle case basse là attorno. I piccoli alberi piantumati da poco ed ancora sorretti da qualche sostegno, sembravano già sofferenti, e le strade asfaltate di fretta mostravano già qualche avvallamento più scuro per via dell’umidità filtrata dalla terra di riporto costipata là sotto. Ho fatto un piccolo giro nei dintorni, ma alla fine ho pensato che il mio proposito di attendere l’uscita scolastica di tutti i ragazzi a fine mattinata fosse solamente una sciocchezza, così mi sono svegliato quasi di soprassalto dentro al mio letto, e sono rimasto sotto alle coperte, nell’attesa di alzarmi definitivamente.

            Ho cercato qualcosa nella mia stanza, ed ho visto alla fine che Paolo mi aveva già raggiunto, adesso restando fermo comunque sulla soglia della mia porta, senza guardarmi, come nell’attesa che fossi io il primo a rivolgergli la parola. Mi sono alzato, ho inforcato delle ciabatte, ho indossato una giacca da camera, e quindi sono andato verso di lui. <<Non devi seguirmi>>, mi ha detto lui con determinazione. <<Nei tuoi ricordi io devo essere solamente una parentesi, una sfumatura lontana, qualcosa che non appare mai definito>>. Sono andato nella piccola cucina del mio appartamento e mi sono preparato del caffè, considerato che avendo coperto il turno di notte in albergo, anche se oramai erano quasi le dodici, in ogni caso per me era ancora soltanto il momento del risveglio. In quell’attimo stesso Paolo è scomparso, come se il corso ordinario della giornata non fosse qualcosa di adatto alla sua personalità. Ho pensato comunque che forse in qualche modo lui avesse ragione: troppo lontani i nostri periodi per cercare ancora delle assonanze tra i nostri differenti scorci di vita, anche se d’altra parte ho sempre continuato ad essere convinto che molte di quelle radici costituite dentro di me derivassero direttamente da lui stesso. Quando sono uscito da casa per andare a mangiare qualcosa in un a rosticceria tavola calda poco lontano da casa, mi sono sentito un po’ più solo, quasi rinnegato dal mio passato di adolescente.

            <<Ravioli panna e prosciutto>>, ho detto alla ragazza dietro al bancone, e lei mi ha sistemato nel solito tavolo minuscolo addossato ad una parete, sistemando sul piano una tovaglietta di carta e qualche stoviglia. Ho osservato il niente che avevo di fronte, ed ho avuto voglia di avere qualcuno per farmi compagnia, e quando ho ripensato a Paolo e alla sua scuola mi è sembrato di provare un senso di nostalgia che non conoscevo, e che appariva del tutto fuori luogo in questo momento. Quando poi il ragazzo si è seduto di fronte a me, gli ho detto che il mio era soltanto un pensiero passeggero, che non doveva sentirsi costretto a restare, se non lo desiderava. Paolo è rimasto in silenzio, ha guardato il mio pasto triste, poi ha detto soltanto: <<mi dispiace certe volte essere duro con te; però non puoi ancora immaginare di poter cambiare qualcosa delle tue giornate solo con delle incursioni inefficaci nella tua adolescenza. Io adesso mi sento grande, libero, capace di decidere ciò che voglio del mio futuro, e tu non puoi far niente per evitare che tutto questo accada davvero>>.

 

            Bruno Magnolfi

domenica 19 maggio 2024

Con l'andare degli anni.


Il cameriere del caffè nel quale, forse solo per abitudine, mi reco ultimamente piuttosto spesso soprattutto per scambiare le solite due chiacchiere con lui mentre sta dietro al suo bancone, oggi mi ha detto ridendo, in mezzo a tante altre affermazioni, che io in fondo dico sempre un po' le stesse cose. Ho sorriso senza ribattere, ma poi ho iniziato a riflettere meglio su queste parole. Potrebbe avere pienamente ragione, il cameriere, perché senza neppure rendermene conto potrei essermi fissato su alcune cose che proseguono incessantemente a girarmi dentro la testa, quasi annullando tutto il resto. Sono uscito dal locale con la netta sensazione di dover cambiare tutto nell'impostazione dei miei pensieri. Ho anche meditato sul fatto che compiendo sempre gli stessi gesti, percorrendo i medesimi itinerari, rispettando i soliti orari durante la giornata, non posso certo pretendere che certi stimoli a cambiare modo di riflettere siano per me del tutto a portata di mano. Così, mentre tornavo verso casa, ho iniziato a cercare intorno a me qualcosa di diverso dal solito, almeno un’idea, oppure un’opinione, un ragionamento qualsiasi, insomma qualcosa che riuscisse a farmi fare una deviazione dai miei soliti passi cadenzati. Poi sono giunto di fronte al condominio dove abito, e sono stato attratto da altre cose.

Non c’è niente di male, credo, nel trascinare in avanti le mie giornate così come faccio: sono una persona sola, che abita da solo e che svolge un tipo di mestiere in cui mi trovo quasi sempre senza alcuna compagnia. Certe volte mi prende la voglia di lasciare tutto e andarmene in qualche lontano paese dove la vita costa poco, e con qualche lavoretto si riesce bene o male a tirare avanti, immerso in un ambiente completamente nuovo dove poter ricominciare tutto daccapo. La fuga ha sempre avuto per me un fascino e un’attrazione forti, e magari non essere mai stato capace di metterla in atto mi fa sentire un pavido, quasi un incapace. Mentre metto il primo piede sulla scala per raggiungere il mio appartamento, avverto alcuni piccoli rumori dietro di me, ed anche se non mi volto so che c’è qualcuno alle mie spalle. Infine, rapidamente mi giro, guardo dappertutto, ma purtroppo sono solo, forse è stata soltanto un’impressione quella che ho avuto, nient’altro. Anche quando salivo la rampa di scale della scuola elementare ricordo che certe volte mi sentivo solo, anche se attorno a me c’erano tanti altri compagni che parlavano e ridevano. <<Paolo>>, dicevo a me stesso in quei casi; <<la tua presenza sarà sempre sufficiente, non hai bisogno di nessuno per mostrare chi sei e che cosa vali>>.

In cima alla rampa delle scale adesso quel ragazzo sta fermo, e poi mi guarda, attende che io lo raggiunga, e magari che gli chieda qualcosa di personale. Cerco nella tasca la chiave per aprire la porta del mio appartamento, e intanto lo ignoro, questo ragazzetto privo di qualsiasi capacità relazionale, uno che neppure ti saluta se ti incontra per caso o per sbaglio, che non ti racconta mai niente di sé, che non ti chiede un consiglio, che non ha mai niente da dire di essenziale. Entro in casa e lui mi segue, tolgo la giacca, mi verso un bicchiere pieno d’acqua e poi mi siedo. <<È la monotonia il vero cruccio di tutto questo tempo>>, dico con voce calma ma piuttosto risoluta. Paolo non mi guarda, sta in piedi appoggiato ad un mobile, sembra cerchi qualcosa da riferirmi senza decidersi da dove cominciare a farlo. <<Non mi sono mai accorto di una cosa del genere>>, dice alla fine, rovesciando su di me tutto il problema. Lo guardo per un attimo, mi alzo dopo aver appoggiato il bicchiere, giro attorno al tavolo, e poi dico: <<Eppure non mi sembra che il tuo periodo scolastico sia stato particolarmente pieno di attrattive e di novità>>. Quando torno a voltarmi però lui non c’è più, forse si è sentito offeso dalle mie parole, penso, oppure poteva rimanere con me soltanto pochi minuti, non saprei. Però dopo un po' sento la sua voce giungere da un angolo: <<Nessuno mi ha mai incolpato di dire sempre le medesime cose, quindi il problema è tuo, ed è un modo che hai maturato in un’età molto più avanzata della mia>>. Sorrido, forse mi aspettavo già una risposta di quel genere, così non sto a ribattere niente, visto che anche la sua voce svanisce nel niente come tutto il resto. Difficile fare i conti con il proprio passato, rifletto, specialmente se questo prende la forma di un ragazzetto in età scolastica senza mai la voglia di farsi carico di qualche piccolo o grande errore che sia. Mi sento distante anche da lui, ultimamente, e forse quel che appare ancora peggio è che lui stesso sembra prendere le distanze da quello che sono diventato io, con l’andare degli anni.

 

Bruno Magnolfi

mercoledì 15 maggio 2024

Non c'era più.


            Stamani l’impiegata al ricevimento dell’albergo dove lavoro si è presentata come sempre puntualissima, dandomi un saluto sorridente e incoraggiante, forse anche in considerazione del fatto che trascorrere tutta la notte in questo pur vasto ingresso restando sempre sveglio e vigile, come sono chiamato a fare io, non è esattamente l’attività più esaltante tra tutte quelle che si possono compiere. Le ho risposto con il mio abituale saluto, le ho dato tutte le consegne e spiegate le scarse novità registrate durante la nottata, poi, al momento di andarmene, mentre intanto prendevano posizione i facchini ed il resto del personale della mattina, mi è venuto voglia di dirle: <<Qualche volta, io e te, si potrebbe anche vederci fuori da qui, e magari prendere un caffè senza avere addosso queste divise di lavoro>>. Clara mi ha guardato con un’espressione un po' perplessa, io e lei ci conosciamo oramai da diversi anni, però non abbiamo mai scambiato molte parole tra di noi, oltre quelle necessarie per svolgere il nostro ruolo. <<Tu sai che io sono sposata>>, mi ha detto con la sua abituale schiettezza, ed io immediatamente ho rettificato l’invito sorridendo: <<Ma certo>>, le ho detto, <<non volevo mica spingermi così avanti da proporti chissà cosa, solo scambiare due chiacchiere in un locale qualsiasi, quello che preferisci tu>>. Lei ha sollevato lo sguardo dai registri aperti sopra il banco del ricevimento, ed ha accennato ad un nuovo sorriso aperto, e poi mi ha detto: <<D’accordo, magari abbiamo anche più cose in comune di quelle che si potrebbero immaginare ad una prima impressione. Ti lascio il mio numero telefonico, così possiamo fissare il giorno migliore per tutt’e due>>.

Quindi sono uscito, dapprima con un’impressione positiva di quanto appena detto, ma subito dopo vergognandomi un po' della mia sfacciataggine. Di fatto, la vera vergogna che mi prende in casi come questi, è quella di mostrare con evidenza a qualcuno la mia solitudine, la mia scarsissima capacità di intessere delle relazioni interpersonali con gli altri. Per nessun motivo al mondo vorrei generare un moto di pena verso di me, per cui il pensiero di aver suscitato un sentimento del genere nella mia collega poco per volta mi ha fatto sentire a disagio, fuori sintonia, insomma sempre più in crisi. Così ho continuato a riflettere a lungo sulle mie parole e sulla risposta ricevuta, e addirittura avrei voluto tornare indietro per dire a Clara di dimenticare ciò che le avevo chiesto, come se non ci fosse mai stata alcuna richiesta da parte mia. Pensandoci meglio, ciò che avevo desiderato provare con lei era solamente la mia personale capacità di spiazzare gli altri, di suscitare con solo due parole una sorpresa improvvisa in chi non si aspetterebbe mai da me una cosa di quel genere. Quindi mi sono avviato lentamente verso la mia abitazione, tentando di cancellare dai miei pensieri la sicura brutta impressione generata in quella ragazza brava e dedita al proprio lavoro.

Una volta in casa mi sono seduto, e subito ho notato questo ragazzo, sopra un terrazzino che resta dirimpetto alla mia finestra. Sembrava impegnato a mettere in ordine dei vasi da fiori, e non si interessasse di nient’altro, ma quando ha alzato lo sguardo verso di me ho visto che ero io stesso, qualche decennio addietro. Occuparmi degli oggetti, più che delle persone, è sempre stata una mia prerogativa, così non mi sono affatto meravigliato che lui adesso fosse impegnato a togliere qualche foglia secca da quei gerani e a versare un po’ d’acqua nella terra. Mi sarebbe piaciuto dargli una mano, in silenzio, ed occuparmi anche io di quelle piante fiorite, così ho aperto la finestra, e nel far questo gli ho fatto un cenno di saluto. Lui, che era posizionato con un ginocchio a terra per compiere quelle piccole attività, dopo che mi ha fatto un piccolo cenno con la mano, si è subito sollevato, come se avesse ormai terminato ciò che aveva in mente di fare, e senza più guardarmi è rientrato nella propria abitazione. Io ho appoggiato i gomiti sopra al davanzale, senza decidermi a fare qualcosa di particolare, se non osservare la strada sottostante poco trafficata, quasi nell’attesa che Paolo tornasse a farsi vedere e magari mi rivolgesse la parola.

Niente però è successo, ma quando sono rientrato ed alla fine ho chiuso la finestra, mi sono reo conto che lui era lì, dietro di me, seduto comodamente e con lo sguardo verso la parete. <<Perché non riesco a comportarmi adeguatamente con gli altri?>>, gli ho chiesto come se fosse una sua precisa responsabilità; e Paolo allora mi ha guardato, è rimasto un attimo in silenzio, e poi, come fanno i ragazzi alla sua età, ha sollevato le spalle, a dimostrare che non aveva alcuna risposta da darmi. <<Per me è stato sempre naturale>>, ha detto dopo un po’. <<Non mi sono mai forzato ad essere diverso da come sono sempre stato>>. Io allora ho annuito, poi mi sono mosso per andare a prendere dei succhi di frutta in cucina, per me e per lui, ma quando sono tornato ho visto che Paolo ormai non c’era più.

 

Bruno Magnolfi  

domenica 12 maggio 2024

Alcuna preoccupazione.


            Credo che i miei compagni di classe potrebbero essere in certi casi anche invidiosi dei miei comportamenti, nonostante a me in fondo non interessi proprio niente dei loro pensieri. Riesco a stare da solo a mio agio e in perfetta tranquillità, mentre tutti gli altri hanno sempre bisogno di parlare con qualcuno, di ridere, scherzare, di misurare le barzellette che riescono a ricordare, ed anche persino la loro eventuale capacità di essere davvero spiritosi. Io sistemo i miei quaderni sul banco, mentre loro parlano, e li dispongo proprio come più mi piace, ad iniziare già dal primo momento in cui arrivo dentro la scuola di via delle matite, quando, subito dopo, apro l’astuccio con tutto il suo contenuto, ed alla fine mi siedo e me ne sto al mio posto in silenzio da solo, certe volte ad improvvisare qualche piccolo disegno su un lembo di una pagina, altre volte a riguardare il libro o gli esercizi eseguiti negli ultimi giorni. Non ho bisogno di altro, tantomeno parlare con qualcuno, e se per caso il mio compagno di banco mi chiede qualcosa, rispondo sempre in maniera sintetica, usando il minimo possibile delle parole che possono servire. Il mio esercitarsi continuamente alla solitudine, mi fa sentire perfettamente bene, come sapessi già da adesso che tra vent’anni o più sarà proprio il comportamento che mi tornerà maggiormente utile, e questo particolare non avere bisogno degli altri credo proprio che sin da ora che sarà sempre il tratto distintivo della mia personalità.

<<Sei un ragazzo in gamba>>, potrebbe dirmi adesso, osservandomi bene, la persona adulta che diverrò probabilmente tra molti anni. <<I tuoi modi di comportarsi di questi anni in cui frequenti ancora la scuola elementare, saranno i principi fondanti di tutta la tua vita; e non assomigliare a nessuno, e soprattutto il  fare affidamento soltanto sulle tue forze, sarà sempre in seguito la base su cui appoggiare tutto il resto>>. Io guardo con attenzione quell’uomo fatto e finito che diverrò tra un po’ di tempo, e sono sicuro che lui incarna in questo momento esattamente quello che vorrei essere da grande, quando tutte le scelte e i modi di fare di una persona adulta si saranno realizzati in maniera seria ed importante. <<Forse però>>, continua lui, <<non hai riflettuto bene sul fatto che, proseguendo ad agire in modo separato da tutti, le occasioni per intraprendere delle attività che magari ti possono anche essere piaciute, si sono ridotte drasticamente, ed il tuo startene sempre per conto proprio non ti ha lasciato mai la possibilità di incrociare individui interessanti, persone piene di idee, ragazze e giovanotti che potrebbero tornarti utili nello sviluppo dei tuoi desideri>>. Mi prende sempre un moto di fastidio a sentir parlare così, anche se, riflettendoci a fondo, riconosco che un fondo di ragione con ogni probabilità ci può indubbiamente essere in mezzo a quelle parole.

Poi giunge la pausa di metà mattinata. Mi guardo attorno, ogni ragazzo della mia classe vedo che si è già alzato in piedi e in pochi attimi si sono facilmente formati dei piccoli gruppi in cui tutti parlano tra loro gesticolando e ridendo. Sono l’unico rimasto seduto, e a nessuno viene mai la voglia di chiedermi qualcosa o di riferirsi a me per qualche motivo. All’improvviso, dico con voce alta e decisa: <<Voglio andarmene da qui!>>, giusto per vedere che reazione riesce ad avere un’affermazione del genere sugli altri. Si instaura subito un attimo di silenzio, tutti mi guardano per capire se a quelle parole c’è addirittura un seguito, poi forse qualcuno riflette che forse in certi casi mi torna normale sentirmi terribilmente da solo pur in mezzo a tanti coetanei. Mi viene vicino uno tra quelli meno introversi, giusto per chiedermi per quale motivo abbia detto in quel modo preciso, ma io adesso oppongo un ostinato silenzio, lasciando all’eventuale interpretazione di qualcuno la possibilità di comprendere il mio attuale stato d’animo.

Quindi le lezioni riprendono come ogni giorno, e nessuno sembra più fare caso a me, proprio perché tutti desiderano la normalità. A fine mattinata però, appena suonata la campanella del termine delle lezioni, il compagno di prima viene verso di me con i suoi libri e i suoi quaderni ormai ben allacciati tra loro da una apposita cinghia, e mi posa una mano sopra la spalla con fare quasi amichevole. <<Cosa c'è, che proprio non ti va bene>>, mi chiede con naturalezza, accompagnando le parole con un leggero sorriso, ma senza dare troppa importanza alla cosa; ed io a quel punto, che non posso certo esimermi dal dargli una qualche risposta, dico soltanto: <<A volte mi sento un po' solo>>, usando un’espressione di afflizione ed un timbro di voce appena percettibile. Lui mi guarda, poi fa: <<però sembra a tutti che tu stia bene da solo, completamente a tuo agio, e che non abbia mai alcun bisogno degli altri>>. Lo guardo a mia volta, poi ci incamminiamo verso l’uscita, ed io all’improvviso inizio a ridere, anche se in modo piuttosto pacato: <<Stavo scherzando>>, gli dico alla fine; <<Non preoccuparti per me>>.

 

Bruno Magnolfi

martedì 7 maggio 2024

Ancora una possibilità.


            Ricordo, mentre come ogni volta svolgo il mio compito di portiere di notte in questo albergo turistico, che durante gli ultimi giorni di scuola media, dopo due anni che quasi non l’avevo più vista, incontrai un pomeriggio ad una piccola festa, dentro ad un appartamento dove mi ero recato solo per fare numero, come desideravano i miei compagni di classe, ma con la ferma idea in testa di stare qualche minuto con loro e poi subito andarmene via, la mia vecchia amica Marta, adesso ben vestita e coi capelli nerissimi e sciolti sopra le spalle. Non dissi niente quando la vidi, non mi feci neppure notare, ma fu lei che, con un gran sorriso sulla faccia, venne subito verso di me, sfiorando le sue labbra con le mie e dicendo a voce alta: <<Ecco il mio amore!>>. Rimasi immobile, stregato, i miei genitori stavano già compiendo il trasloco di appartamento, ci si trasferiva in città, una volta terminato l’anno scolastico, ed io ero talmente contento di andarmene da quella cittadina dove, da quando ero nato, non ero riuscito a farmi neppure un amico, che tutti i ragazzi che mi circondavano apparivano oramai ai miei occhi quasi trasparenti, tanto riuscivo ad ignorarli.

            Quel paese era il frutto sbagliato di un piano regolatore ideato da una persona come minimo ubriaca, oppure da un pazzo: i soldi erano stati forniti a pioggia per chi aveva preso la residenza in quel luogo composto nei decenni passati soltanto da un borgo contadino, e le nuove case popolari progettate intorno a quel nucleo, tutte simili una all’altra, erano state tirate su con dei mutui individuali a fondo perduto, al punto che una volta intascati i quattrini, in molti avevano lasciato le abitazioni non terminate, volgendo le spalle a quella cittadina fantasma composta da scheletri di palazzetti e da strade tracciate alla meglio. Tutto l’intero centro abitato era poi stato pensato in funzione di una grande scuola per i bambini e per i ragazzi, l’enorme edificio di via delle matite, dove io avevo svolto fino ad allora tutti i miei studi, anche se negli ultimi anni gli studenti di ogni classe avevano iniziato a farsi sempre più scarsi. Anche la mia famiglia alla fine aveva deciso di andarsene, anche perché mio padre, con il suo duro lavoro di camionista, era riuscito a mettere da parte i soldi sufficienti per permettersi un piccolo appartamento nella vicina città, ed io, quando se ne era parlato anche con la mamma, mi ero dimostrato talmente entusiasta all’idea di lasciare per sempre quel luogo, che sarebbe stato impossibile per loro ritirare quella proposta.

            Per un minuto o anche due non riuscii a dire niente, ma lei mi abbracciò con grande calore, ed io mi ritrovai a sorriderle con l’espressione di uno stolto, completamente travolto da qualcosa di assolutamente impensabile. Sapevo che aveva avuto un ragazzo, un tipo per nulla simpatico, e si era fatta vedere in giro con questo tizio per qualche mese, fino a quando era sparita, quasi risucchiata, avevo pensato io, da quella relazione per lei estremamente esclusiva. Era normale che mi fossi disinteressato completamente di Marta, ed anche se l’anno precedente mi era sembrata ancora una ragazza verso la quale nutrire qualche speranza, in seguito ogni pensiero su di lei mi era svanito dalla mente, evaporato, quasi come se non fosse mai neppure esistita. Adesso, all’improvviso, eccola qui, con degli atteggiamenti che non mi aspettavo e dei quali non la credevo neppure capace, tanto che non sapevo proprio cosa rispondere, quale comportamento assumere per non apparire un idiota e nient’altro. Poi lei salutò qualcun altro, rise di qualche battuta di spirito che intanto era stata formulata, girò per la stanza come se fosse perfettamente a proprio agio, e in un attimo probabilmente si dimenticò del tutto della mia presenza. Sgattaiolai fuori dall’appartamento come peraltro avevo già deciso di fare, perdendo volutamente del tempo lungo le scale, nella speranza che Marta mi rincorresse, o si ricordasse all’improvviso di me, ma niente di tutto questo parve accadere, ed io mi ritrovai lungo la strada senza altra voglia se non quella di tornare alla svelta dai miei genitori.

            Forse fu il suo modo, sicuramente bizzarro, di darmi così il proprio addio, ho pensato in seguito e a lungo molte volte, anche perché non ho più avuto modo di incontrarla di nuovo, ed anche questo sembra quasi qualcosa già perfettamente deciso in precedenza, fino a lasciarmi convincere che era assolutamente meglio così piuttosto che trascinare la nostra conoscenza nei tempi a seguire. Forse fu quello il momento in cui la sentii a me più vicina, nonostante avessi, durante l’anno precedente, già riconosciuto, nei suoi comportamenti, qualcosa che non collimava affatto con la mia personalità. Però mi piacque in quell’ultimo incontro il suo gesto e la sua espressione, e devo riconoscere che, se qualche volta mi sono ricordato di Marta con un certo piacere, è stato proprio grazie a quella volta finale, come fosse stato un simpatico e completo azzeramento di ogni possibilità ancora in campo.

 

            Bruno Magnolfi              

domenica 5 maggio 2024

Misero risultato.


            Marta mi ha guardato, in silenzio, come se le sue opinioni passassero in secondo piano nei confronti dei pensieri che sembrano continuamente correre nelle nostre menti. Per un attimo mi sono sentito bene, compreso nella mia solitudine, ma lei d’improvviso si è sollevata da quel gradino su cui c’eravamo seduti, e senza più guardarmi ha detto che adesso doveva proprio andarsene. Non so perché, ma mi sono sentito ferito, come se in una frase di poche parole ci stesse tutto il crollo dei miei desideri, così ho risposto nella stessa maniera: <<Certo>>, le ho detto con modo impersonale: <<anche io ho sciupato persino troppo tempo questo pomeriggio>>. Quasi non ci siamo salutati, ed ognuno ha preso per una direzione diversa, anche se io non avevo neppure un posto dove dirigermi, se non a casa, dove però c’era mia madre ad occuparsi delle proprie cose e a mostrare il desiderio di non essere disturbata. Così ho compiuto uno dei mei giri senza una vera meta, rasentando le case grigie a due piani del paese, spesso soltanto intonacate e mai completate, in certi casi lasciate per anni con ancora i mattoni a vista. Sono andato a sedermi in un piccolo cantiere rimasto fermo da sempre, con le tavole di legno marcio e l’erba alta e secca tra i ferri arrugginiti, e sono rimasto lì a riflettere. Anche Marta è come gli altri, ho pensato. Incapace di stare davvero vicino a qualcuno, e se per qualche momento è riuscita a fingere di incuriosirsi magari per qualche particolare che non aveva mai riscontrato in qualcuno fino ad ora, in realtà il suo mondo è fatto d’altro, praticamente quasi lo stesso di tutti gli altri miei compagni di classe. A questo pensiero la mia volontà si è subito fortificata, e quando sono tornato ad alzarmi in piedi, la mia sicurezza mi ha fatto lasciare alle spalle ogni altro desiderio, conservando soltanto l’orgoglio della mia solitudine. 

            Per certi versi era stato meglio il periodo della scuola elementare, quando almeno ci comportavamo tutti in un modo più istintivo, meno riflettuto ed elaborato dalla mente; perché adesso che siamo alle scuole medie la nostra inevitabile crescita ci ha naturalmente portato ad essere combattuti tra mille continue scelte possibili, e all’improvviso anche le parole, i nostri gesti, e le espressioni persino appena accennate, sono divenute in qualche caso delle vere lacerazioni dello spirito. Mi sono spinto di nuovo quarant’anni più avanti allora, proprio per rendermi conto una volta di più della trasformazione che il tempo ha elaborato dentro di me, ed ho rapidamente incontrato il mio me stesso mentre stava camminando lungo una strada, semplicemente. Gli sono andato vicino, l’ho persino affiancato, e poi gli ho preso con delicatezza una mano, come a mostrare che comprendevo perfettamente il suo stato d’animo, e mi rendevo conto della radice, della vera origine degli errori commessi in tutto questo tempo. Lui non ha detto niente, ma si è sicuramente sentito bene per questa mia solidarietà inaspettata, e in questo modo abbiamo compiuto un intero tratto insieme.

<<Non mi chiedo mai se sono contento di quello che sono>>, ha detto lui alla fine. <<Probabilmente, se cerco qualcosa nelle cose che mi circondano, non è certo la felicità o il sentirmi a mio agio. Mi accontento, anche se questa parola mi pare persino offensiva al giorno d’oggi>>. Io gli ho sfilato la mia mano dalla sua, mi sono fermato sul marciapiede, e poi ho lasciato che quest’uomo di mezza età scorresse avanti, come rassegnato in sé e nelle proprie parole. Avrei voluto parlargli di Marta, del suo comportamento, ma non sono del tutto sicuro che lui mi avrebbe fornito le risposte a me necessarie. Una persona da sola è capace di sentire il mondo nelle proprie mani, nel momento in cui pensa alle proprie cose, e nessuno di noi due, anche se siamo lo stesso individuo in tempi differenti, è disposto a concedere l’evidenza di un errore commesso, se non è stato il primo a rendersene conto. Marta è sicuramente scomparsa dalla sua memoria, non c’è stato alcun motivo per trattenerne neppure il ricordo o una semplice impressione, forse soltanto perché io mi sono rapidamente disinteressato di lei quando ho compreso che per starle vicino avrei dovuto accettare anche dei compromessi con tutti gli altri ragazzini della mia stessa età.

Davanti a me, ancora fermo sopra al marciapiede, lui ad un tratto si ferma, si volta, forse si rende conto soltanto adesso che non sono più insieme a lui, e poi di colpo dice: <<Forse Marta non valeva niente, non era il tipo di ragazza adatta per noi>>. Lo guardo mentre provo il desiderio di non dare importanza a queste parole, ma lui continua: <<Per qualche tempo ha funzionato da specchio con i suoi atteggiamenti, ma la sua personalità non collimava con la richiesta impellente di vicinanza che le veniva avanzata, e forse le giungeva una semplice impressione ogni tanto, ma in un modo dal quale riusciva facilmente a districarsi rapidamente, come se alla fine troppo sforzo le fosse richiesto per un ben misero risultato>>.

 

Bruno Magnolfi

giovedì 2 maggio 2024

Accettazione della realtà.


Il mio vicino di casa mi ha avvertito: <<Dobbiamo essere tolleranti, d’accordo; ma non si può lasciare che qualcosa di insopportabile prosegua ancora ad accadere, come se noi fossimo disposti ad accettare qualsiasi sgarbo senza mai dire un bel niente>>. Lo osservo con attenzione, mentre ambedue restiamo in piedi sulla soglia del mio appartamento, e comprendo dai suoi gesti nervosi che ha ormai raggiunto una fase personale piuttosto delicata. Noi due siamo dei buoni dirimpettai di pianerottolo, e quindi ci conosciamo da un pezzo, ma non è colpa mia, rifletto, se nell’appartamento al piano superiore del nostro condominio si è installata da qualche tempo una nuova famiglia di affittuari un po' rumorosa, e in special modo durante la notte, in quelle ore in cui io fortunatamente mi trovo a lavorare in albergo, non ritenendomi perciò disturbato da loro, almeno non nella stessa maniera in cui mi riferisce questo mio conoscente. Per lui invece è una questione estremamente importante, ed adesso poi aggiunge per questo che è persino disposto a fare intervenire le forze dell’ordine. Personalmente non ho un buon rapporto con le guardie, soprattutto per i miei trascorsi; perciò, preferirei tentare di risolvere la questione in maniera meno ufficiale, cioè, facendo semplicemente presente ai confusionari che non è il caso di andare avanti ancora così. <<Ci devi parlare tu>>, fa adesso il mio vicino, <<altrimenti io perdo facilmente le staffe e va a finire che riesco a compromettere tutto>>. Annuisco, anche se non ho alcuna voglia di intraprendere una discussione su questi temi, né col mio vicino, né con la famiglia incriminata. Alla fine, riesco a rassicurare quest’uomo che mi rimane di fronte, normalmente calmo e gentile, e poi a chiudere la porta di casa alle sue spalle dopo averlo in parte convinto delle mie buone intenzioni.

Durante il giorno non ci deve essere nessuno nell’appartamento del piano di sopra, rifletto, difatti non avverto mai grossi rumori o cose del genere; però durante la tarda serata, quando tra l’altro i sensi per tutti si fanno più attenti e sensibili, ecco che questa famiglia si anima e sembra addirittura scatenarsi, urlando e muovendo mobili e oggetti sul proprio pavimento. Sorrido, alla fine è persino una cosa sciocca quella che sono chiamato a fare, però aspetto con pazienza l’ora di cena e poi mi presento all’uscio del piano superiore, bussando leggermente alla porta. Mi apre una donna in vestaglia, alle sue spalle tre o quattro bambini curiosi, e sullo sfondo intravedo un uomo piuttosto corpulento e poco rassicurante. Spiego in fretta le mie ragioni, e chiedo con cortesia la loro comprensione per tentare una convivenza condominiale il più possibile serena, ma vengo guardato in malo modo, senza che mi venga neppure offerta una vera risposta. Imbarazzato, ripeto quello che ho appena finito di dire, ma la donna abbandona la sua posizione, lasciandomi sulla soglia con i suoi bambini che mi guardano come se fossi un extraterrestre. Alla fine, lentamente, me ne vado, e dopo un attimo sento chiudere di colpo la porta alle mie spalle. Quello che dovevo fare, penso mentre scendo le due rampe di gradini, credo di averlo già fatto.

Mentre mi cambio gli abiti, preparandomi ad uscire di casa per raggiungere il mio posto di lavoro, mi rendo conto che quella famiglia del piano superiore potrebbe essere formata da alcuni dei miei parenti. Uno di quei bambini che ho visto, difatti, potrebbe tranquillamente essere mio padre, una volta fattosi grande, che difatti aveva dei fratelli, e quindi la donna che mi ha aperto l’uscio potrebbe essere tranquillamente mia nonna. Il giorno seguente, in orario comodo per me, suono il campanello del mio dirimpettaio, e gli faccio subito presente quanto è accaduto, spiegandogli però che là dentro abitano brave persone, e che noi dobbiamo essere tolleranti, perché hanno i loro guai, e che non è il caso di farne una tragedia. Lui mi guarda, poi forse decide che non è neppure il caso di ribattere, ma in quel momento io sbotto: <<Sono miei parenti, non fanno niente di male, uno dei bambini tra qualche anno diverrà mio padre, ed io sento che non posso dire o fare niente contro i miei familiari>>. Il mio vicino annuisce, e lentamente inizia chiudere la porta, senza aver pronunciato una sola parola. <<Sono brave persone>>, dico ancora a voce alta all’uscio ormai chiuso; <<sono soltanto un po' confusionari>>. Quindi mi volto e rientro nel mio appartamento. Seduto in un angolo c’è il ragazzetto che viene spesso a farmi visita, il piccolo Paolo, il me stesso di tanti anni fa. <<Stai sbagliando>>, mi spiega. <<Non è in questo modo che potrai riuscire a trovare della solidarietà, oppure addirittura a farti degli amici. Sei solo, devi esserne cosciente, e soltanto in questa maniera puoi fare fronte alla tua giornata>>. Stavolta sono io a restare in silenzio. Cosa aggiungere, peraltro, mi chiedo; tutto è già definito, posso soltanto accettare questa realtà; e nient’altro.

 

Bruno Magnolfi