Con lo
sguardo offuscato da un evidente principio di stanchezza, mi appoggio al
bancone del ricevimento, mentre svolgo il turno di notte al portierato
dell’albergo dove lavoro, e all’improvviso, senza averne avuto in precedenza
neppure un sentore, mi trovo davanti questa strana prostituta che oramai
conosco da tempo, la stessa che viene ogni tanto a trovarmi e a prendersi un
caffè prima di tornarsene a casa, mentre è assieme alla familiare figura del
solito ragazzetto che ero io ai tempi della scuola, i due tenendosi per mano
come fossero dei vecchi conoscenti. Sollevo le braccia dal piano lucido e cerco
di comprendere come sia possibile che i miei ricordi d’infanzia si siano
mescolati in questo modo con il presente, ma attendo per diversi attimi l’eventuale
spiegazione diretta fornita dalle loro stesse parole, se avranno la bontà di
spiegarmi qualcosa. <<La tua solitudine ci opprime>>, dice la
prostituta che stanotte sembra vestita in maniera piuttosto elegante e meno
vistosa, quasi come se fosse reduce da una serata a teatro, o magari da una
cerimonia importante, oppure un incontro con persone di alto livello sociale.
Paoletto resta momentaneamente in silenzio, però adesso mi osserva, come se
volesse tradurre con la sua stessa espressione qualcosa che le parole non riescono
necessariamente a spiegare. Mi alzo con grande lentezza, esco da dietro al
bancone, e poi cerco di chiarire che non era assolutamente mio desiderio far
preoccupare qualcuno.
Trascorre
qualche momento in cui tutto sembra sospeso, infine mi accorgo che c’è una
membrana che divide la mia persona da loro due: un sipario trasparente che ci
rende lontani, anche se rimaniamo soltanto a pochi passi di distanza. Quindi un
rumore sottile mi sveglia del tutto, e mi ritrovo di nuovo davanti alla scuola
di Via delle Matite, intento ad osservare la facciata della costruzione mentre
sembra sia appena suonata la campanella dell’ora di ingresso, tanto che gli
ultimi ragazzi si stanno affrettando a salire i pochi gradini e sparire svelti
all’interno del pesante portone. Mi nascondo agli occhi del custode, mentre sulla
soglia lui prosegue a controllare che tutto si svolga in maniera regolare,
salutando insegnanti e bambini, ed io, che mi sento riparato dalla robusta
recinzione tutt’attorno all’edificio, decido di non entrare, e che oggi non è
la giornata giusta da trascorrere in classe. Prendo per una piccola strada sul
retro, ed arrivo rapidamente a costeggiare alcune case basse in apparenza
deserte, mescolate ad altre ancora in costruzione, ma dove non si intravede
nessun operaio al lavoro. Infine, lungo dei tratti di terreno incolto e
lasciato infestato da polvere ed erbacce, giungo sul margine del piccolo
torrente che scorre senza fretta tra sassi e cespugli.
Quando mi
siedo sopra una pietra, mi accorgo che probabilmente mia madre verrà presto a
sapere che stamani non sono entrato dentro la scuola, ma in ogni caso non mi
sembra che questa sia la cosa maggiormente importante. Forse vorrei disegnare,
oppure leggere un libro, o magari ascoltare qualcuno che parla, che mi racconta
di sé, dei suoi desideri, della sua vita, di tutto quello che potrebbe
passargli in questo esatto momento dentro la testa, come la poca acqua davanti
ai miei piedi, che prosegue ad andarsene chissà verso dove. Poi prendo la testa
tra le mie mani: il punto essenziale è che non so cosa sia meglio fare, non so quale
sia il comportamento più adatto per me, non capisco cosa ci sia che non mi
faccia essere nella stessa maniera di tutti gli altri ragazzi della mia medesima
età. Quando infine decido di andarmene a scuola, ormai è trascorsa metà della
mattina, e suonando al portone giunge il custode ad aprirmi, con un’espressione
seria e meravigliata. <<Non credo che la maestra ti ammetta in classe, a
quest’ora>>, mi dice, ma io replico: <<Posso provare>>, e
così lui mi accompagna paziente fino all’aula in fondo al corridoio. Entro, e
dico subito, restando fermo in piedi: <<Ho dovuto fare un giro in fondo
al paese, non mi ero accorto di aver fatto così tardi>>.
La maestra
non dice niente, ed anche i miei compagni mi guardano e basta, tanto che alla
fine lei mi fa cenno di sedere al mio solito banco. Appoggio i quaderni e
l’astuccio, ma ho una gran voglia di piangere, di urlare che non sto bene, che c’è
qualcosa di strano dentro di me che mi fa essere così come sono, ma nello
stesso momento mi ritrovo ancora dietro al bancone del ricevimento, nel solito
albergo, vestito di camicia bianca e di giacca blu scuro, come è previsto dalle
regole imposte dal direttore. <<Paolo!>>, mi dicono in classe
chiamandomi indietro, per farmi tornare da loro, ma io so che tutto questo non
ha assolutamente alcun senso, così resto a guardare l’ampio ingresso
dell’albergo, con le sue porte vetrate ben chiuse di fronte alla notte della
città, ed attendo paziente che scorrano anche queste ore che mi separano dalla
mattina, come per ogni turno che compio, prima di potermene tornare verso la mia
abitazione, forse per decidere qualcosa da fare della nuova giornata.
Bruno
Magnolfi
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