Le ombre
vivono ormai di vita propria. Si lasciano proiettare dalla luce debole e fioca
della lampada di una stanza o di un corridoio, strisciando lungo le pareti o
sui pavimenti; ma non disdegnano neppure di farsi vedere anche all’aperto, su
un marciapiede stretto oppure lungo un muro di vecchie pietre irregolari,
usufruendo per esistere della luce quasi orizzontale al termine di una
giornata, apparendo talvolta ancora nette, dettagliate, dai contorni definiti. Sono
sagome di personaggi ben riconoscibili, individui forse rimasti incastrati senza
volerlo dentro una realtà oscura e parallela, che appaiono irregolarmente, di
rado, ed ogni tanto dando prova di sé, di ciò che sono stati, della loro
trascorsa concretezza, per scomparire magari poco dopo al primo angolo di una
parete, oppure all’abbassarsi d’intensità anche dell’ultimo barbaglio di
chiarore ormai appena sufficiente per l’illuminazione. Mi fermo ad osservarli
sempre con grande attenzione, quasi nell’intento di scoprire qualcosa di nuovo
da quel loro passaggio, anche se avverto con certezza che ogni ulteriore
meditazione su tutto ciò che è stato potrà soltanto portare qualsiasi verità
maggiormente fuori strada da ciò che era. La mia solitudine pare aggravarsi in
certi momenti, ed oramai attendo spesso con ansia la visita a tarda ora di
questa donna che si spinge fino all’albergo, dove lavoro come portiere di notte,
giusto per prendersi un caffè in mia compagnia, e trascorrere qualche minuto
insieme a me. Non so neppure più se lei sia veramente Marta, la versione
attempata della mia amica ragazzina di quando ero piccolo, o se è soltanto l’interpretazione
aggiornata di una donna a cui la vita ha regalato soltanto ansie e sofferenza, e
in ogni caso mi piace ritrovarla ogni volta esattamente così com’è, con quei
silenzi che avanza, intrisi di esperienza e di coraggio.
Ritengo di
non essere riuscito, in tutti questi anni di sbagli e di tentativi falliti, a
combinare niente di particolarmente edificante, e mi cruccio certe volte nel
pensare che poco per volta si stanno chiudendo per me tutte le possibilità di provare
un minimo di soddisfazione dal mio stato di cose. Però mi accetto, anche così
come sono, e forse persino Marta in questo mi sostiene. <<Sono
tornata>>, mi dice lei certe volte quando si fa vedere, lasciando a
queste parole tutte le implicazioni che posso riuscire a immaginare. <<Anche
questa giornata si avvia a chiudersi come molte altre, con un niente di
fatto>>, mi spiega; ed io annuisco, perché so bene cosa significa essere
coscienti di tutto questo senso di incapacità. Non si trattiene molto, generalmente
solo il tempo sufficiente per lasciare un’impronta di sé nel mio starmene da
solo, ed andandosene all’improvviso dice soltanto: <<ti lascio di nuovo nelle
mani delle tue ombre>>, e a me sembra comunque di averla ancora vicina,
anche quando ormai se n’è andata chissà dove. Le ombre forse sorridono in
questi casi, elaborando probabilmente qualche commento sprezzante sui mei modi
di fare, eppoi riprendono poco per volta i propri colori naturali, ed alla fine
mi pongono degli interrogativi, spesso formulando proprio quelle domande a cui
cerco per tutta la giornata di sfuggire.
Riconosco i
ragazzi della scuola, il pesce che catturai al laghetto, mia madre china sul
cucito, forse anche mio padre, e poi il custode della scuola, e l’insegnante
che mostrava qualche volta di volermi bene, nel tentativo di aiutarmi a
diventare più socievole, in grado di stare insieme a quei compagni che
sembravano da me sempre lontani mille miglia. Certo, potrei essere stato
diverso in quei periodi, e tutto avrebbe assunto probabilmente un altro
spessore, un’altra importanza, e con un piccolo sforzo avrei potuto sconfiggere
la solitudine che in seguito mi ha sempre attanagliato. E forse anche con Marta
avrei potuto stare più vicino a lei, darle degli appuntamenti, uscire in due
nei pomeriggi vuoti, almeno fino a quando tutto questo si fosse dimostrato ciò
che davvero volevamo l’uno dall’altra. Invece mi scorrono davanti agli occhi
solo le fisionomie di ciò che avremmo potuto essere, e forse questo è un
ulteriore rammarico che si mescola a tutta l’amarezza che ancora provo.
Mi piazzo
poi dietro al bancone del ricevimento a scorrere i nomi degli ospiti di questa
notte nel nostro albergo, e d’improvviso sento bussare leggermente alla porta
vetrata dell’ingresso. È Marta, è tornata indietro per dirmi qualche cosa,
penso, per farmi presente magari che non tornerà mai più a trovarmi da ora in
avanti, o forse per spiegare qualcosa che probabilmente mi è sfuggito, non saprei.
L’osservo per un lungo momento, quindi mi sposto dal bancone, aziono l’apertura
automatica della porta, ed intanto esco dalla mia postazione, attraverso il
vasto ingresso, vado verso di lei, l’accolgo ancora, come sempre, come non mi
stancherò sicuramente mai di fare, e mi avvicino a Marta con lentezza ma
risolutamente, fino a giungerle davanti, con lo sguardo pronto a comprendere
cosa può essere stato a farla tornare verso me, ma lei si avvicina solo quanto
basta, e poi congiunge le sue labbra sulle mie, lasciandomi stupito, proprio
nel momento in cui mi accorgo che anche lei sicuramente è soltanto un’ombra tra
le tante.
Bruno
Magnolfi
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