domenica 13 ottobre 2024

Sarà finita.


            Fra qualche tempo avrò vent’anni, la testa sempre costantemente altrove, impegnata, dietro ad un’espressione della mia faccia sempre seria ed accigliata, a rincorrere pensieri spesso inconcludenti e irrealizzabili, e mio padre, via come sempre per tutta la settimana dietro al suo lavoro, mi chiede prima di partire per uno dei suoi lunghi giri all’estero a consegnare chissà cosa con quell’autotreno, di fare una visita in ospedale alla mia mamma, ormai ricoverata da diverso tempo. Mi sono tenuto in tutto questo periodo piuttosto alla larga da lei, come anche da mio padre, accampando impegni fasulli e altre cose di quel genere, ma adesso mio padre è stato così diretto nella sua richiesta che non sono stato capace di rispondere niente, se non di annuire e basta. Stamattina poi sono libero da tutto, quindi ho indossato i miei soliti vestiti, ed ho preso un mezzo pubblico che va a fermarsi al capolinea proprio davanti all’ingresso principale del Policlinico. So vagamente dove stia ricoverata la mia mamma, ci sono già venuto almeno una volta qua dentro al seguito di mio padre, e più o meno ricordo il reparto in cui lei dovrebbe trovarsi, anche se una volta entrato mi appare improvvisamente tutto identico, impersonale, senza alcun dettaglio di riferimento, ed alla fine devo tornare fino alla portineria per chiedere quale sia il corridoio giusto ed anche il numero di stanza.

            Entro, finalmente, e mi fermo quasi sulla porta: la mamma è là, immobile nel suo letto bianco. Resto in un angolo della stanza silenziosa dove si trovano altri tre degenti coricati, e nessuno di loro si interessa della mia presenza, tanto più che non è in vista neppure l’ombra di un medico o di un infermiere, lasciando così spaziare il mio sguardo in giro su ciò che più desidero. Dal pallore della carnagione di mia madre, immagino subito che lei sia la più grave in salute di tutta quella camera. Non mi avvicino, lei è priva di conoscenza: inutile che cerchi di darle qualche disturbo per farmi in qualche modo riconoscere. Le macchine che monitorano i parametri vitali accanto a lei ronzano regolarmente, e la flebo a cui è collegata rilascia, con una propria cadenza, qualche goccia di prodotto dentro al suo sistema vascolare. Vorrei pensare a lei, alla mia mamma, concentrandomi sul lontano periodo di quando ero piccolo, in quei momenti in cui lei cercava di instradarmi nel comportarmi in modo adeguato con i miei compagni della scuola materna e delle elementari, ma non trovo dentro di me adesso nessuna immagine particolare che mi faccia sentire solidale con i suoi tormenti, con la sua battaglia contro quel tumore che la sta divorando dall’interno. Non mi interessa quanto tempo dovrò trascorrere qui, rifletto senza alcuna razionalità: attenderò che mia mamma torni a svegliarsi, che riacquisti tutta la propria coscienza, che mi riconosca, che dica con voce flebile che le fa piacere che io sia qui, davanti a lei, e che io sia ancora suo figlio, quello che lei ha cercato di allevare al meglio che le era stato possibile, forse anche sbagliando in alcuni suoi comportamenti, però cercando sempre di incoraggiare le mie deboli possibilità.  

            Lei non si muove, accetta remissiva la situazione a cui è sottoposta, ed anche quando le macchine iniziano a segnalare che qualcosa non sta più andando come dovrebbe, la mamma resta immobile, senza combattere alcuna battaglia per la crisi che sta iniziando dentro sé. Non passa molto tempo, giungono gli infermieri, qualche medico, mi fanno uscire immediatamente, vedo dallo spiraglio della porta che stendono alcuni paraventi intorno al suo letto, in modo da effettuare tutte quelle manovre per ristabilire rapidamente i valori che sembrano sballare. È una corsa con il tempo, tutti sembrano nervosi, seri, preoccupati, ed io pur comprendendo perfettamente che cosa stia accadendo, non riesco a rassegnarmi a questo finale che mi si prospetta. Le cose vanno per le lunghe, passa un’ora, non accade niente di speciale, nessuno si prende la briga di informarmi mentre attendo quell’esito inevitabile che mi pare ormai impellente, anche se ogni tanto, nel corridoio dove mi trovo, chiudo gli occhi come per dare a me stesso la spiegazione che è tutto solo un difficile momento, che tutto passerà, che tutto tornerà ad essere com’era, che non ci sarà davvero un prima e un dopo, che non mi sentirò solo tra non molto, senza questo cardine della mia esistenza; e poi penso pure che non devo essere egoista, che non devo pensare a me, oppure a quello che deriverà da tutto questo, e che è lei che sta combattendo questa battaglia, e che io devo soltanto essere adesso insieme alla mia mamma, darle forza, anche se neppure sa che sono qui, vicino a lei, che resto qui imperterrito ad assistere a tutto ciò che sta accadendo davanti a me.

            Poi esce il medico di turno dalla stanza, dice che è dispiaciuto, che è accaduto tutto quanto in fretta, che probabilmente il suo corpo era minato anche più di quello che era stato immaginato. Annuisco, resto attonito nel corridoio mentre tutti sistemano le cose; dovrò telefonare a mio padre, tra pochissimo, dirgli qualcosa di esauriente, che sono stato qui per tutto il tempo, e poi sarà finita.

 

            Bruno Magnolfi  

Nessun commento:

Posta un commento