Fra qualche
tempo avrò vent’anni, la testa sempre costantemente altrove, impegnata, dietro
ad un’espressione della mia faccia sempre seria ed accigliata, a rincorrere
pensieri spesso inconcludenti e irrealizzabili, e mio padre, via come sempre
per tutta la settimana dietro al suo lavoro, mi chiede prima di partire per uno
dei suoi lunghi giri all’estero a consegnare chissà cosa con quell’autotreno,
di fare una visita in ospedale alla mia mamma, ormai ricoverata da diverso
tempo. Mi sono tenuto in tutto questo periodo piuttosto alla larga da lei, come
anche da mio padre, accampando impegni fasulli e altre cose di quel genere, ma
adesso mio padre è stato così diretto nella sua richiesta che non sono stato
capace di rispondere niente, se non di annuire e basta. Stamattina poi sono
libero da tutto, quindi ho indossato i miei soliti vestiti, ed ho preso un
mezzo pubblico che va a fermarsi al capolinea proprio davanti all’ingresso
principale del Policlinico. So vagamente dove stia ricoverata la mia mamma, ci
sono già venuto almeno una volta qua dentro al seguito di mio padre, e più o
meno ricordo il reparto in cui lei dovrebbe trovarsi, anche se una volta
entrato mi appare improvvisamente tutto identico, impersonale, senza alcun
dettaglio di riferimento, ed alla fine devo tornare fino alla portineria per
chiedere quale sia il corridoio giusto ed anche il numero di stanza.
Entro,
finalmente, e mi fermo quasi sulla porta: la mamma è là, immobile nel suo letto
bianco. Resto in un angolo della stanza silenziosa dove si trovano altri tre
degenti coricati, e nessuno di loro si interessa della mia presenza, tanto più
che non è in vista neppure l’ombra di un medico o di un infermiere, lasciando così
spaziare il mio sguardo in giro su ciò che più desidero. Dal pallore della
carnagione di mia madre, immagino subito che lei sia la più grave in salute di
tutta quella camera. Non mi avvicino, lei è priva di conoscenza: inutile che
cerchi di darle qualche disturbo per farmi in qualche modo riconoscere. Le
macchine che monitorano i parametri vitali accanto a lei ronzano regolarmente,
e la flebo a cui è collegata rilascia, con una propria cadenza, qualche goccia
di prodotto dentro al suo sistema vascolare. Vorrei pensare a lei, alla mia
mamma, concentrandomi sul lontano periodo di quando ero piccolo, in quei
momenti in cui lei cercava di instradarmi nel comportarmi in modo adeguato con
i miei compagni della scuola materna e delle elementari, ma non trovo dentro di
me adesso nessuna immagine particolare che mi faccia sentire solidale con i
suoi tormenti, con la sua battaglia contro quel tumore che la sta divorando
dall’interno. Non mi interessa quanto tempo dovrò trascorrere qui, rifletto senza
alcuna razionalità: attenderò che mia mamma torni a svegliarsi, che riacquisti tutta
la propria coscienza, che mi riconosca, che dica con voce flebile che le fa
piacere che io sia qui, davanti a lei, e che io sia ancora suo figlio, quello
che lei ha cercato di allevare al meglio che le era stato possibile, forse anche
sbagliando in alcuni suoi comportamenti, però cercando sempre di incoraggiare le
mie deboli possibilità.
Lei non si
muove, accetta remissiva la situazione a cui è sottoposta, ed anche quando le
macchine iniziano a segnalare che qualcosa non sta più andando come dovrebbe, la
mamma resta immobile, senza combattere alcuna battaglia per la crisi che sta
iniziando dentro sé. Non passa molto tempo, giungono gli infermieri, qualche
medico, mi fanno uscire immediatamente, vedo dallo spiraglio della porta che
stendono alcuni paraventi intorno al suo letto, in modo da effettuare tutte
quelle manovre per ristabilire rapidamente i valori che sembrano sballare. È
una corsa con il tempo, tutti sembrano nervosi, seri, preoccupati, ed io pur
comprendendo perfettamente che cosa stia accadendo, non riesco a rassegnarmi a
questo finale che mi si prospetta. Le cose vanno per le lunghe, passa un’ora,
non accade niente di speciale, nessuno si prende la briga di informarmi mentre
attendo quell’esito inevitabile che mi pare ormai impellente, anche se ogni
tanto, nel corridoio dove mi trovo, chiudo gli occhi come per dare a me stesso
la spiegazione che è tutto solo un difficile momento, che tutto passerà, che
tutto tornerà ad essere com’era, che non ci sarà davvero un prima e un dopo,
che non mi sentirò solo tra non molto, senza questo cardine della mia
esistenza; e poi penso pure che non devo essere egoista, che non devo pensare a
me, oppure a quello che deriverà da tutto questo, e che è lei che sta
combattendo questa battaglia, e che io devo soltanto essere adesso insieme alla
mia mamma, darle forza, anche se neppure sa che sono qui, vicino a lei, che
resto qui imperterrito ad assistere a tutto ciò che sta accadendo davanti a me.
Poi esce il
medico di turno dalla stanza, dice che è dispiaciuto, che è accaduto tutto
quanto in fretta, che probabilmente il suo corpo era minato anche più di quello
che era stato immaginato. Annuisco, resto attonito nel corridoio mentre tutti
sistemano le cose; dovrò telefonare a mio padre, tra pochissimo, dirgli
qualcosa di esauriente, che sono stato qui per tutto il tempo, e poi sarà
finita.
Bruno
Magnolfi
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