mercoledì 13 gennaio 2010

Il ragazzo e la strada.



Le giostre andavano avanti come sempre avevano fatto. C’era stato un periodo di crisi negli ultimi due anni, ma con qualche rinnovamento alle attrezzature le cose adesso sembravano avere ripreso. La vita dietro alle quinte del mio Luna Park era sempre la stessa. Si viveva con la gente, in mezzo alla gente, si cercava ogni giorno di capirne le voglie, di interpretarne le idee, di immedesimarsi nel bisogno di tutti di tornare bambini.
Quel ragazzo era arrivato dal nulla, aveva chiesto se poteva lavorare con noi, ed io gli avevo risposto che si poteva fare un periodo di prova. Era sveglio, imparava le cose alla svelta, sembrava non avere un passato; e poi parlava poco ed era italiano, l’ingrediente più strano di tutti. “Ehi, ragazzo”, a volte dicevo; e lui scattava in piedi e faceva subito quello che gli si chiedeva di fare. Al mattino si faceva la manutenzione ai meccanismi, e lui con le mani piene di grasso faceva la sua bella figura, perché si vedeva che aveva fatto il meccanico, e se ne intendeva di ferri e motori. Altro non si riusciva a strappargli di bocca: certo, in galera non c’era mai stato, questo lo avevo saputo da subito, e poi non sembrava uno che scappasse da qualcosa o qualcuno, piuttosto era come se avesse di dentro una febbre, un ingrediente diverso da tutti, che ne faceva quasi un estraneo, uno che non sarebbe mai stato dei nostri, neanche fossero passati cent’anni.
Per il pomeriggio, quando le giostre erano in funzione, gli avevo trovato un compito di tutto rispetto, e lui lo svolgeva senza distrarsi, con tutto l’impegno che ci voleva. A volte era simpatico, aveva quasi l’età dei miei tre figlioli, ma era migliore di loro, mi sarebbe piaciuto che si fosse fermato con noi ad insegnarci qualcosa nelle serate di magra, quando c’era più tempo per parlare e ascoltarci. Invece, com’era arrivato, andò via.
Mi incontrò quasi per caso, tra i corridoi che formavano i baracconi del tiro al bersaglio, e mi disse soltanto: “devo smettere, vado a raggiungere un amico”, non ricordo più in quale città. Non era vero niente, naturalmente, ed io pur lisciandomi i baffi quanto potevo, non riuscivo per nulla a capire perché andava via proprio adesso, ora che aveva imparato quel che c’era da sapere, che si era guadagnato il rispetto di tutti, che qualcuno, quasi senza saperlo, aveva iniziato a volergli anche bene. Probabilmente la sua strada era quella, lui lo sapeva, aveva qualcosa di dentro che lo trascinava da qualche parte, qualcosa che non avrebbe mai rivelato a nessuno.
Gli detti i suoi soldi, anche qualcosa di più, lo abbracciai, come si fa sempre tra noi, e non gli chiesi più niente, era inutile; e invece lui disse che mi avrebbe spedito una lettera. Non ci credetti, naturalmente, ma dopo un po’ iniziai a chiedere, a volte, se era arrivata posta per me, come se ci sperassi davvero. Non mi passava di mente, speravo che dopo un periodo di tempo ritornasse da noi, che riprendesse a lavorare alle giostre.
Dopo un anno invece arrivò la sua lettera. Poche righe, un solo foglio piegato, lo lessi d’un fiato e non capii niente, così lo rilessi da capo. Non diceva un bel niente, non chiedeva un bel niente, però tra le righe si capiva che era lui che scriveva, che mi voleva dare qualcosa di sé. Rilessi di nuovo tutto da capo, e infine capii. Parlava di un sogno che aveva sempre avuto, ma neanche lui sapeva cos’era. Diceva di un percorso che aveva iniziato, tutto dentro ai suoi sentimenti, alla sua testa. “Forse sono un po’ matto”, spiegava; “però devo seguire la strada che sento, non sarei una persona se non facessi così”. Poi passava ai saluti, e mi diceva che era contento di avermi conosciuto, perché gli avevo dato molto di più di quello che io avevo creduto di dargli; e poi concludeva: “non preoccuparti per me, le risposte ad ogni domanda che adesso ti poni è lì, sopra ai tuoi baffi…”.


Bruno Magnolfi

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