Certe
volte davanti a me vedo una macchia. Sul muro bianco della stanza
improvvisamente è lì, l’osservo senza muovermi e quella si allarga, lentamente,
poco per volta si apre come un fiore colpito dalla luce. I miei familiari mi
chiamano dalla sala da pranzo, vogliono che stia con loro, mi sieda al loro tavolo,
faccia in modo che la conversazione allieti i pranzi e le cene, e che si
affrontino insieme, quando è possibile, i piccoli problemi quotidiani dai quali
siamo afflitti.
Resto
in silenzio, la maggior parte delle volte, gli argomenti di cui parlano tutti
neppure mi interessano, e poi non ho mai avuto la vocazione a dire a voce alta quello
che penso o a riflettere collettivamente su qualcosa. Preferisco guardare nel
mio piatto, sollevare lentamente le posate sminuzzando ogni cibo in tante
piccole porzioni di misura quasi identica, e portarmele alla bocca con gesti
attenti, quasi studiati, muovendo la mascella per la masticazione in maniera
garbata, lineare, quasi elegante.
Certe
volte mi guardano; la moglie di mio fratello, con la sua voce stridula, dice
qualcosa su di me, mai riferendosi a me direttamente, ma come cercando in modo
subdolo di tirarmi dentro al suo continuo conversare, e subito qualcuno mi
chiede qualcosa, se sto bene, se procedono bene le mie meditazioni
sull’eternità e sull’assoluto. Lo dicono per ridere, lo so, è come se non
avessero alcuna fiducia nella mia organizzazione dei pensieri, ed io annuisco
con la testa, giusto per far tutti contenti, per lasciar credere loro tutto
quello di cui sentono la voglia.
Poi
alzo gli occhi: sopra al muro la macchia si apre, assume colorazioni diverse
pur rimanendo sempre scura, è come se desse profondità alle superfici, quasi
scavasse dentro alla parete, nella materia, allargando se stessa corrodendo
l’intonaco, il cemento, i mattoni, continuando a lavorare lentamente, con i
bordi sempre in movimento, alla ricerca spasmodica di abbracciare tutto, di
allargarsi ad ogni cosa possibile. Torno al mio piatto, mastico, muovo le
posate, afferro una parola bisbigliata da qualcuno, i bambini seduti sopra le
sedie rialzate dai cuscini ridono e si stuzzicano tra loro.
Mi
muovo, chiedo qualcosa a bassa voce, tutti si voltano a guardarmi: no, dico,
non volevo disturbarvi, solo dell’acqua, per favore; parlo in modo affrettato,
stendendo leggermente una mano ad indicare la caraffa, ma tutti ne guardano il
dorso ossuto, la posizione tremolante, forse pensano che non stia bene, si
preoccupano di me, lo sanno che non voglio, che non c’è niente di diverso dal
normale. Bevo un sorso d’acqua e sento gli occhi che continuano ad osservare ogni
mio gesto, così riprendo le posate e ricomincio come prima a mangiare e a
masticare, anche se loro hanno già finito. Sottovoce parlano di me, almeno mi
pare, spesso fanno così.
I
bambini si alzano, non ce la fanno più a rimanersene ancora seduti, qualcuno
dice qualcosa di allegro, si portano via i piatti sporchi dalla tavola. Anch’io
mi alzo, nessuno mi chiede di aiutare alla risistemazione della sala da pranzo,
al riordino di tutte le cose che abbiamo usato: mi hanno visto, sono stati con
me, hanno constatato anche oggi la mia condizione, adesso posso tornare nella
stanza, riprendere con tutti i miei pensieri, non servo a niente, e darei solo
fastidio a girellare per la casa. Così sparisco, affondo nella mia poltrona,
prendo in mano un caro vecchio libro che ho letto e consultato ormai migliaia
di volte, e infine torno ad osservare il muro, nell’attesa che la macchia
ricompaia.
Bruno
Magnolfi
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