domenica 27 febbraio 2011

Un ritratto da portare via.


            
L’impiegato della compagnia delle assicurazioni, dietro la sua scrivania al terzo piano del palazzo dove ha sede la direzione della società per cui lavora da quasi vent’anni, pensa a sua moglie in quel primo pomeriggio pieno di sole che filtra dai grandi finestroni a vetri che fronteggiano la strada, in un’aria leggermente sonnacchiosa, forse per via di quel quarto di vino rosso di cui si è servito quasi con superficialità durante il pranzo nella mensa aziendale al piano terra del medesimo edificio. Qualcosa gli sembra differente in quella giornata così identica a qualsiasi altra, forse sarà la digestione, immagina, o forse il pensiero di sua moglie che sembra sorridergli in modo stravagante da dietro la piccola cornice di metallo appoggiata in un angolo sul piano della scrivania.
            In fondo le abitudini hanno giocato un grande ruolo all’interno di tutta la sua vita, pensa: la monotonia perenne degli orari, tutte quelle attività sempre un po’ simili, quel comportamento suo e degli altri colleghi spesso alternabile, quella maniera di augurarsi il buongiorno a inizio turno, e la buonasera alla fine della giornata di lavoro; ecco, tutto questo adesso gli appare come qualcosa di indigesto, che all’improvviso lo richiama verso qualcosa di cui, a dire la verità, non si è quasi mai interessato. Sua moglie è stata cortese, questo è sicuro, prima di lasciarlo andare via di casa quel mattino; eppure qualcosa nei suoi modi sembrava nascondere qualche elemento di insincerità, come un inventarsi certe maniere eleganti, quasi piacevoli, proprio nel dire le cose abituali di ogni giorno, edulcorate da un sorriso inedito, forse più disteso.
            Lui a tratti ha parlato con i suoi colleghi durante la mattina, si sono scambiati tra loro le solite riflessioni di ogni giorno, si sono detti le cose che si dicono da sempre abitualmente tanto per lasciare scorrere le ore, per poter dimostrare che la loro vita è utile, concreta, quasi necessaria, e questo gli è bastato per arrivare all’ora del pranzo soddisfatto della sua attività. Ma adesso è lì sua moglie che lo guarda, sopra al piano della scrivania, con un’espressione che sembra quasi voler dire che tutti quei suoi comportamenti così composti, così garbati, di piena adeguatezza, di cui lei peraltro si è sempre mostrata compiaciuta, bene, adesso quei suoi modi precisi e definiti, quei dettagli sempre misurati e riflettuti, quelle maniere così giuste, sono assolutamente fuori sintonia, anzi, a dirla tutta, addirittura un po’ ridicoli.
Ecco, questa è la parola fondante in tutta la faccenda: lui si sente ridicolo, ma non perché sua moglie adesso lo osserva da quella vecchia fotografia a colori, oppure perché si è dilungato a parlare coi colleghi di cose in fondo poco significative, quanto perché lui adesso è cosciente di essersi adagiato, giorno dopo giorno, dentro a un meccanismo che forse non condivideva appieno. Certo, questo è il punto. Svolgere la propria esistenza senza averla mai affrontata criticamente. Questo è l’aspetto che gli manca. La stessa foto di sua moglie sopra al piano della scrivania, è soltanto un’abitudine per tutti coloro che come lui lavorano nella sede della compagnia delle assicurazioni, non una scelta personale.     
All’improvviso, a fronte di queste riflessioni, si sente quasi mancare, sarà colpa del vino rosso, pensa ancora per un attimo. Poi si alza lentamente dalla sedia girevole con i braccioli e il poggiatesta, raccoglie il portaritratti che per molti anni è stato sopra l’angolo del piano della scrivania e se lo ficca in tasca. Quindi esce, indifferente all’ora indicata dal grande orologio sul muro in fondo al corridoio, raggiunge le scale, scende al piano terra e se ne va: niente di meglio che avere qualcosa di importante da fare in un pomeriggio come quello, pensa sorridendo, confrontato allo starsene seduto su una sedia fingendo qualcosa senza alcun significato.

Bruno Magnolfi
           
            

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