Resto qui seduto, in questa sala d’attesa con le luci al
neon in alto, ed osservo a lungo le mie scarpe per evitare lo sguardo della
bella ragazza che mi siede di fronte, su una poltroncina proprio uguale alla
mia, notando ad un tratto che anche lei si scruta le scarpe ogni tanto, persa
chissà dietro quali pensieri. Oltre la porta bianca con la maniglia lucida c’è
un medico famoso, qui si attende il proprio turno in silenzio e con deferenza,
raccogliendo le proprie riflessioni attorno al destino di tutti e al potere
risolutivo della scienza, portata avanti con sicurezza dentro questo ambulatorio.
Vorrei sfiorarla quasi con indifferenza, penso,
sorriderle con espressione distesa, tranquilla, dirle, senza neppure abbassare
troppo la voce, che per me è un vero piacere incontrare una ragazza come lei,
sederle di fronte, poterla osservare nelle sue espressioni piacevoli e immaginare
quanto cortesi e garbate devono essere i suoi modi, i suoi gesti, persino la
voce. Invece sto qui, rannicchiato e fermo su questa sedia di stoffa e metallo,
e sento risucchiare ogni tanto le mie riflessioni da elementi distanti, da
velati ricordi, che qui in questa stanza sembrano ancora più remoti, quasi dei
filamenti che giungono svogliatamente da un’altra vita, da un mondo lontano.
I lacci delle mie scarpe sono ben stretti, osservo, non
riuscirò a sistemarli così bene nella fretta di rivestirmi una volta effettuata
la visita, e questa sarà una disdetta: uscirò da questa clinica con la testa
confusa, alcuni fogli incomprensibili ben stretti dentro le mani, l’eco di
alcune parole sentenziate dal medico e i vestiti malmessi, niente di peggio
potrebbe succedermi. Anche la ragazza di fronte proverà le mie sensazioni,
penso, ma a differenza di me potrà forse vantare una capacità adattativa
migliore, un diverso modo di affrontare le cose, qualsiasi esse siano.
Così mi rassegno, vorrei essere lontano da qui con tutto
me stesso, eppure so che devo fronteggiare qualsiasi prova mi si pone davanti,
perché questa è la regola, e va rispettata. Adesso osservo le scarpe della
ragazza, tanto per prendermi come una pausa: sono sicuro che calzano
perfettamente e verranno indossate perfettamente anche dopo la visita, pronte
ad accompagnarla in tutti quei giri che ancora in quella serata le resteranno
da fare, alla volta di alcune piccole salutari esperienze, incontrare qualcuno,
passare del tempo insieme agli amici. Invidio quella perfetta capacità che
mostrano certe persone, e se ci penso mi rendo conto di quanto io abbia sempre
cercato di assomigliare a qualcuno di loro, salvo aver perso soltanto del tempo
verso il mio fallimento.
Vorrei alzarmi da questa sedia, adesso, schiarirmi la
voce, declamare qualcosa senza capo né coda, mettermi in mostra, scatenarmi in
una risata liberatoria che rompa questo silenzio impossibile percorso soltanto
dal fastidioso ronzio delle lampade al neon. Invece sprofondo sempre più nelle
mie spalle, piego la schiena, osservo ancora a lungo la punta delle mie scarpe.
Poi la ragazza solleva lo sguardo, fa un leggero sorriso, dice: tocca a lei
adesso, si faccia coraggio, le cose vanno affrontate con serenità; lo faccia
per me, giusto per assomigliarmi, per prendere un po’ della gioia di vivere che
non deve mai abbandonarci. La guardo,
lentamente mi adeguo a quel suo sorriso, sento dentro di me che ha ragione, non
ci potevano essere parole migliori di quelle che ha detto, tanto che non riesco
neppure a rispondere, a dire qualcosa. La porta bianca si apre, l’infermiera si
affaccia, dice il mio nome: vado.
Bruno Magnolfi
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