I ragazzi si erano stufati in fretta
di giocare al pallone, così si erano seduti sopra al bordo di un marciapiede
poco lontano, tenendosi le ginocchia con le braccia e parlando sottovoce delle
loro cose. Il babbo di uno di loro era passato poco dopo con la sua auto
scarburata, aveva abbassato il finestrino e lo aveva chiamato. Lui era corso
via e nel giro di mezz’ora anche il resto del gruppo si era sciolto,
andandosene ognuno verso la sua casa, mentre le ultime ombre del giorno si
allungavano tra i sassi e la terra di quel quartiere periferico.
Andrea era rimasto in silenzio ad
ascoltare gli altri, poi, quando se n’erano andati, aveva salutato tutti con un
ciao imbronciato e si era allontanato da solo, perché era l’unico che abitava in
un appartamento delle case minime, un gruppo di abitazioni di legno messe su in
fretta dopo il terremoto in una zona fuori mano, e poi rimaste lì, a degradarsi
poco per volta in quei dieci anni, giorno dopo giorno. Non gli piaceva
tornarsene dai suoi, preferiva tirare tardi insieme a qualcuno dei ragazzi,
quando era possibile: c’era in casa quel clima perennemente teso, una guerra
continua anche soltanto per delle stupidaggini, e lui, nonostante il suo
silenzio e gli occhi bassi, a volte comunque riusciva a fare le spese di
qualcosa di cui non aveva minimamente colpa.
La strada polverosa girava attorno ad
un gruppo di orti di fortuna, recintati alla meglio, e qualche povero cane,
rinchiuso nelle cucce di lamiera, abbaiava e guaiva al minimo sentore di
qualcuno nelle vicinanze. Andrea si era fermato, si era guardato attorno,
infine senza far rumore era andato a sedersi su una grossa pietra lì vicino:
non aveva voglia di tornare a casa, continuava a ripeterselo continuamente, avrebbe
fatto di tutto pur di non sentire i soliti urli e assistere alle medesime
scenate di ogni giorno. I cani in poco tempo si erano acquietati, e lui, nella
sua equilibrata solitudine, aveva respirato l’aria fresca della sera, quel
silenzio meraviglioso, quella pacatezza che regnava accanto agli orti ormai
deserti a quell’ora.
Sarebbe diventato grande tra qualche
anno, pensava, le cose sarebbero state facili e naturali per lui, così come lo erano
state per suo fratello e per tutti gli altri ormai adulti, e avrebbe anche lui
potuto dire in faccia a chiunque le sue idee e le sue opinioni, facendosi
ascoltare, e si sarebbe fatto in fretta una reputazione, la calma sarebbe
regnata in casa sua, ognuno avrebbe potuto esprimere in piena libertà ogni
proprio singolo pensiero. Era solo questione di tempo, tutte le cose si
sarebbero aggiustate, ma non poteva lui pretendere adesso una qualche scorciatoia,
era evidente, e se non sopportava il continuo litigare dei suoi genitori,
doveva solo convincersi che tutto questo non sarebbe continuato così per molto
tempo.
Nessuno gli chiedeva mai la sua
opinione, ma era solo perché lui preferiva starsene perennemente in silenzio, e
tutti in genere lo lasciavano in disparte di ogni cosa, come se Andrea non
avesse un suo parere. Ma sarebbero cambiate le cose, lo sentiva, era
sufficiente far passare un po’ di tempo, e lui avrebbe spiegato a tutti cosa
pensava veramente, quali erano le idee che gli passavano continuamente nella
testa e qualche volta parevano quasi urlare dentro di sé. Ormai era buio, non
c’era altro da fare, adesso doveva proprio rientrare a casa sua, così si alzò
da quella pietra incamminandosi verso quel buffo gruppo di alloggi di legno
poco lontano, e nello stesso attimo un cane uggiolò, riportandolo all’improvviso
alla realtà: volse la testa come per cercarlo tra quegli orti, anche se era
tutto scuro, e d’un tratto seppe di volergli bene, anche se non sapeva di
preciso neppure dove fosse.
Bruno Magnolfi
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