Quando
arrivai nella saletta di attesa, superata la rampa di scale di marmo, c’era
solo una persona seduta sulla poltroncina di stoffa color dell’avorio. La
segretaria uscì dal suo ufficio per chiedermi con chi avessi l’appuntamento,
poi mi disse che c’era un po’ da aspettare. Arrivarono altre due persone,
parlando tra di loro a voce alta; salutarono il terzo e poi continuarono a
conversare di arte, di editoria, di direttori di riviste e di altre conoscenze
che vantavano. Mi sorrisero, chiesero se volessi sedermi, poi continuarono con
i loro argomenti. La saletta era chiara, il pavimento lucido, la segretaria
continuava a dar corso alle sue telefonate, ed i tre a parlare e a scambiarsi
opinioni e informazioni. Con i loro discorsi e i modi di fare, mi ricordavano
vagamente qualcuno, una persona che avevo conosciuto tanti anni prima, un
venditore di enciclopedie evoluto, come mi piaceva chiamarlo, che all’epoca
trattava certi lavori di grafica, peraltro con ottimi risultati. Ricordavo che
aveva un’opera di Vinicio Berti dentro al suo ufficio, un quadro spruzzato di
rosso e di nero che campeggiava sul muro dietro alla sua scrivania. Dopo una
buona mezz’ora fui ricevuto. L’editore fu molto simpatico, disse che si
aspettava una donna, peraltro molto più giovane di me, a giudicare dai temi e
da come era scritto quel mio romanzo. Spiegò che il lavoro era buono, però lui
non era convinto. Parlò molto, inanellando parecchi argomenti importanti, poi,
prendendosi una pausa per rispondere a una chiamata, io ebbi modo di guardare
in modo più attento sul muro dietro di lui. Su quel muro c’erano tre grandi
quadri; tre grafiche spruzzate di rosso e di nero, e il nome che risaltava sul
fondo di ognuno era per me inconfondibile: Vinicio Berti, non poteva essere in
alcun altro modo.
Bruno
Magnolfi
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