L’impiegato
della compagnia delle assicurazioni, dietro la sua scrivania al terzo piano del
palazzo dove ha sede la direzione della società per cui lavora da quasi
vent’anni, pensa a sua moglie in quel primo pomeriggio pieno di sole che filtra
dai grandi finestroni a vetri che fronteggiano la strada, in un’aria leggermente
sonnacchiosa, forse per via di quel quarto di vino rosso di cui si è servito quasi
con superficialità durante il pranzo nella mensa aziendale al piano terra del
medesimo edificio. Qualcosa gli sembra differente in quella giornata così
identica a qualsiasi altra, forse sarà la digestione, immagina, o forse il
pensiero di sua moglie che sembra sorridergli in modo stravagante da dietro la
piccola cornice di metallo appoggiata in un angolo sul piano della scrivania.
In fondo le abitudini hanno giocato
un grande ruolo all’interno di tutta la sua vita, pensa: la monotonia perenne
degli orari, tutte quelle attività sempre un po’ simili, quel comportamento suo
e degli altri colleghi spesso alternabile, quella maniera di augurarsi il
buongiorno a inizio turno, e la buonasera alla fine della giornata di lavoro;
ecco, tutto questo adesso gli appare come qualcosa di indigesto, che
all’improvviso lo richiama verso qualcosa di cui, a dire la verità, non si è
quasi mai interessato. Sua moglie è stata cortese, questo è sicuro, prima di
lasciarlo andare via di casa quel mattino; eppure qualcosa nei suoi modi
sembrava nascondere qualche elemento di insincerità, come un inventarsi certe
maniere eleganti, quasi piacevoli, proprio nel dire le cose abituali di ogni
giorno, edulcorate da un sorriso inedito, forse più disteso.
Lui a tratti ha parlato con i suoi
colleghi durante la mattina, si sono scambiati tra loro le solite riflessioni
di ogni giorno, si sono detti le cose che si dicono da sempre abitualmente
tanto per lasciare scorrere le ore, per poter dimostrare che la loro vita è utile,
concreta, quasi necessaria, e questo gli è bastato per arrivare all’ora del
pranzo soddisfatto della sua attività. Ma adesso è lì sua moglie che lo guarda,
sopra al piano della scrivania, con un’espressione che sembra quasi voler dire
che tutti quei suoi comportamenti così composti, così garbati, di piena
adeguatezza, di cui lei peraltro si è sempre mostrata compiaciuta, bene, adesso
quei suoi modi precisi e definiti, quei dettagli sempre misurati e riflettuti,
quelle maniere così giuste, sono assolutamente fuori sintonia, anzi, a dirla
tutta, addirittura un po’ ridicoli.
Ecco,
questa è la parola fondante in tutta la faccenda: lui si sente ridicolo, ma non
perché sua moglie adesso lo osserva da quella vecchia fotografia a colori, oppure
perché si è dilungato a parlare coi colleghi di cose in fondo poco
significative, quanto perché lui adesso è cosciente di essersi adagiato, giorno
dopo giorno, dentro a un meccanismo che forse non condivideva appieno. Certo, questo
è il punto. Svolgere la propria esistenza senza averla mai affrontata
criticamente. Questo è l’aspetto che gli manca. La stessa foto di sua moglie
sopra al piano della scrivania, è soltanto un’abitudine per tutti coloro che
come lui lavorano nella sede della compagnia delle assicurazioni, non una
scelta personale.
All’improvviso,
a fronte di queste riflessioni, si sente quasi mancare, sarà colpa del vino
rosso, pensa ancora per un attimo. Poi si alza lentamente dalla sedia girevole
con i braccioli e il poggiatesta, raccoglie il portaritratti che per molti anni
è stato sopra l’angolo del piano della scrivania e se lo ficca in tasca. Quindi
esce, indifferente all’ora indicata dal grande orologio sul muro in fondo al
corridoio, raggiunge le scale, scende al piano terra e se ne va: niente di
meglio che avere qualcosa di importante da fare in un pomeriggio come quello,
pensa sorridendo, confrontato allo starsene seduto su una sedia fingendo
qualcosa senza alcun significato.
Bruno
Magnolfi