domenica 7 ottobre 2012

Senza patria (ripresa cinematografica n. 19).


            

            Per più giorni ci eravamo trascinati verso la frontiera; senza neppure sapere con precisione quanto davvero fosse lontana, e che cosa avremmo trovato quando fossimo arrivati in quelle circostanze. Infine, in uno spiazzo costituito soltanto di polvere e da cinquanta tende di colore bianco, accanto ad uno sparuto villaggio senza nome, avevamo scoperto quel piccolo campo di profughi, dove alcune persone ci erano venute incontro per raccontarci di essere arrivate in quel luogo ormai da molto tempo, e di non essere riuscite più ad andarsene via, restando nell’attesa che qualcuno decidesse in qualche maniera della sorte di ognuno di loro.
            A noi, appena arrivati, era parso incredibile continuare come loro a vivere a lungo così, e quindi avevamo deciso di prendere le informazioni necessarie, e andarsene via il prima possibile. Le Organizzazioni non Governative presenti ci davano messaggi rassicuranti, ma dentro a quel campo circolava un malumore generalizzato che sfociava facilmente nella rassegnazione. Un uomo si prodigava quasi ogni giorno a raccogliere informazioni e a parlare per tutti con voce alta e squillante. Argomentava di politica, di strategie internazionali di alcuni governi, di condizioni storiche di qualche gruppo etnico o di qualche altra realtà, ma dopo due o tre volte che lo avevamo sentito parlare eravamo già pronti a disinteressarci di lui e dei suoi ragionamenti.
            Mi avevano assegnato una branda sporca, ed io mi ero rannicchiato là sopra senza neppure cercare soluzioni diverse. Mi rendevo conto che era difficile andarsene via da quel luogo, lasciare la sicurezza di un pasto caldo e di un letto dove dormire, ma tutti là dentro sentivamo di diventare ogni giorno più flaccidi, anche senza volerlo, privi quasi di qualsiasi volontà, tanto che ci chiedevamo cosa ci fosse nel tè e nelle tisane che distribuivano nel campo in ogni ora del giorno, rassegnati al destino di profughi che non hanno più niente, neppure una personalità, e che stazionano probabilmente per anni in luoghi come quello, nell’attesa che qualcosa o qualcuno decida per tutti.
            Pensavamo alla guerriglia, ai rastrellamenti, ai cecchini appostati, alla recrudescenza di quei momenti appena lasciati alle spalle, e quel campo in qualche maniera ci pareva il paradiso, e tutti noi, come tanti pesci destinati a nuotare in quel mare a volte incomprensibile, là dentro ci sentivamo comunque al sicuro, sia pure in un luogo dove l’unica possibile libertà era quella di sentire la fame, la sete, il sonno, e tutti gli altri aspetti di una vita vegetale, senza alcun altro significato.
            Avevo scoperto tanti piccoli sassi colorati, nei paraggi del campo; tutti tra le sfumature delicate del giallo e del rosso, e li avevo raccolti e sistemati in fila sopra la polvere, proprio accanto a quella mia branda. Mi pareva un segno di distinzione, una maniera per dichiarare agli altri che c’ero, ero lì con tutti i miei pensieri, e non per mia scelta, ma soltanto costretto da qualcosa che, sia io che gli altri come me, non riuscivamo neppure del tutto a comprendere. Qualcuno, poco dopo, mi aveva chiesto, con voce bassa, cosa mai significassero quelle piccole pietre: ma parevano domande giusto per parlare di qualche argomento, scambiare qualche idea, trovare qualcosa da dirsi che non fossero le solite cose.
            Poi, un militante dell’Organizzazione Non Governativa li aveva tolti, approfittando di un momento in cui ero in giro, o a mangiare alla mensa; però mi aveva aspettato, mi aveva stretto la mano e spiegato che non era possibile personalizzare le postazioni: c’erano delle regole, e tutti noi eravamo tenuti a rispettarle. D’accordo, avevo detto, così avevo disperso quei piccoli sassi che mi aveva riconsegnato, guardando qualcosa sull’orizzonte tra il cielo e un punto lontano, mentre lanciavo le pietre, al bordo del campo: dovevo andarmene, questo era il punto, non esisteva nessun’altra possibilità, anche se tutto sembrava chiamarmi, insieme agli altri, ad affrontare una lotta per sua natura perdente. Forse per molti quella realtà appariva persino incomprensibile, pensavo tra me, e io stesso ancora non riuscivo a considerare quale fosse la mia vera strada, eppure sentivo nella mia coscienza che avrei abbracciato un’idea, prima o dopo, qualcosa che mi avrebbe dato il sostegno di cui avevo bisogno: lo avrei fatto senz’altro, ne ero ormai più che sicuro.

            Bruno Magnolfi
            

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