giovedì 18 ottobre 2012

Quasi un pensiero completo (ritratto n. 10).


          

            Cesarino tirava tardi, come sempre faceva quando passava da lì, appoggiato al bancone del bar con l’immancabile sigaretta, mentre mio padre proseguiva ad ascoltare divertito i suoi ragionamenti leggermente strampalati, e soprattutto a sistemare tazzine e bicchieri, preparando tutto quanto sarebbe servito per la nuova giornata di lavoro, la serranda del locale mezza abbassata, le sedie sui tavoli, quasi a chiarire a chiunque fosse passato da lì che il bar era chiuso, e che era permesso soltanto a qualche vecchio cliente di entrare ed acquistare un pacchetto di sigarette, o al massimo farsi una bevuta veloce.
            Io a quell’ora in genere tiravo lo straccio sul pavimento, nonostante la mia giovane età, e d’altronde non avevo avuto alcuna voglia di continuare a studiare; ma in ogni caso, quando si fermava con noi, lo guardavo sempre con grande curiosità, quell’ultimo cliente del giorno, anche soltanto con la coda dell’occhio, perché mi pareva il più stravagante di tutti, un uomo che si vedeva solo ogni tanto da queste parti, e che sembrava avesse la necessità, almeno in quelle serate, di trovare qualcuno che stesse ad ascoltare le cose che aveva da dire, storie balzane generalmente, durante le quali non entrava mai troppo dentro ai dettagli, lasciando i discorsi un po’ in aria, quasi per il gusto di tenere tutto in sospeso, o solo parzialmente spiegato.
            In genere Cesarino parlava di sé, di ciò che faceva o di quel che pensava degli altri, persone che sembrava conoscere soltanto lui; ma a volte, parlando di qualcuno, pareva quasi cercasse di darci una descrizione di sé, girando con le parole attorno ad un personaggio sfuggente, ma che in fondo neppure gli assomigliava, quasi che il suo tentativo fosse quello di far coincidere la sua persona con un’idea di se stesso appena abbozzata, che in qualche modo sembrava girargli in modo ossessivo dentro la testa. Anche seguendo con attenzione ciò che aveva da dire, era inutile perfino proporgli delle domande: normalmente neppure rispondeva; si limitava a storpiare la bocca in un mezzo sorriso, fare una pausa per bere un piccolissimo sorso dall’immancabile bicchierino del suo brandy preferito, che in genere riusciva a farsi bastare per tutta un’intera serata, e poi riprendeva a parlare esattamente da dove si era interrotto, come se niente potesse distogliere il suo tentativo di spiegare ciò che davvero aveva dentro la mente.
            Mi piaceva quel suo modo di fare: mi pareva quello di una persona rimasta come in sospeso tra una solitudine estremamente opprimente, seppure tollerata in qualche maniera, ed una socialità conflittuale con la quale tentava di contrastare la sua natura da animale notturno, a suo agio soltanto quando le persone in circolazione diventavano poche. Adesso non riesco a ricordare neppure come fosse il suo modo di vestire, tanto quel dato appariva poco influente nella sua personalità. Ciò che subito ricordavi di lui era la faccia: l’espressione di chi cerca di ridere non riuscendoci mai, di chi parla non prendendosi neppure una volta sul serio, di chi sa che la serata è finita, ma non riesce a convincersene ancora, e pur di rinviare questa consapevolezza è pronto ad affrontare l’umido delle strade di notte, e l’odore di disinfettante nei locali in chiusura.
            L’ultima volta che lo vidi, Cesarino, come lo chiamavano tutti anche se forse non era neppure questo il suo vero nome, mi guardò fisso, cercando come di comprendere cosa stessi pensando. Poi mi indicò qualcosa per terra mentre stavo spazzando il pavimento del bar, forse una cicca, o un pezzetto di carta, non so. E’ importante far le cose per bene, mi disse. Ti sentirai sempre una persona migliore, subito dopo. Poi uscì dal locale.

            Bruno Magnolfi

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