Il
dolore che mi opprime da giorni sembra attenuato. Sono rientrato in casa, dopo
il pranzo alla solita trattoria dove anche oggi ho mangiato qualcosa da solo in
silenzio. L’interno del mio appartamento sembra lontano dalla realtà, quasi privo
di qualsiasi distrazione, così mi sono subito coricato sul letto, avendo cura
di spogliarmi degli abiti e di ficcarmi sotto le coperte nella luce diffusa
della finestra di camera appena oscurata da queste tende. Il tepore mi fa
immaginare di stare bene, la mia mente lasciata a se stessa sembra navigare
senza alcuna direzione, finendo per rendermi distante da tutto.
Vorrei
non sentire troppo la necessità di rassicurarmi, eppure se resto immobile mi
pare quasi che la mia sottile sofferenza si attenui, e che smettano di girarmi
per la testa le strane idee che mi portano costantemente a concentrarmi sulla
parte del mio corpo che prosegue imperterrita a conservarsi dolorante,
nonostante i miei sforzi per ignorarla. Proseguo nel lavorio tutto mentale per
cercare di tenere distanti i miei problemi, infine però mi sento esausto,
accendo la luce, mi scalzo dalle coperte, infilo le pantofole e vado
velocemente a sedermi davanti alla scrivania.
Devo
fare qualcosa, penso, è inevitabile. Apro quasi con rabbia uno alla volta i tre
cassetti dove tengo le piccole cianfrusaglie di sempre, e infine in mezzo a
mille altre cose trovo un foglietto con un nome di donna appuntato, del quale
non ho alcuna memoria. A fianco è riportato anche un numero di telefono, ma poi
non c’è altro, niente che possa farmi ricollegare quell’appunto a qualcuno.
Sistemo il foglietto sul piano del tavolo, richiudo i cassetti ed osservo con
calma la mia calligrafia con la quale ho scritto, chissà quanti anni prima, quella
piccola nota.
Mi
sembra immediatamente un aggancio con un passato che forse ho voluto rimuovere,
qualcosa che per un motivo od un altro mi è parso ad un certo momento superato
ed inutile. Rileggo il nome, cerco di immaginare tutto ciò che mi suscita, ma
non riesco ad arrivare a un bel niente. Infine prendo in mano l’apparecchio
telefonico e compongo quel numero. Suona un ricevitore remoto, squilla tre o
quattro volte, infine una voce femminile risponde con una certa fermezza
chiedendo chi sia al telefono. Riattacco; non mi viene ancora a mente nulla che
possa aiutarmi, però quella voce mi è parsa interessante, anche se non riesco
in nessuna maniera a collegarla con una faccia. Il mio dolore si fa ancora
sentire, però lo ignoro, quasi con puntiglio e con decisione.
Penso
ancora alla voce: mi pare si possa immaginare dei capelli lunghi tenuti
raccolti dentro una crocchia sopra la nuca; un’espressione del viso luminosa,
intelligente; un lieve trucco appena accennato sopra le palpebre di un paio
d’occhi nerissimi e senz’altro pungenti. Quasi sicuramente degli orecchini
piccoli e di buon gusto coronano questa espressione, ma non riesco a
riconoscerla, non è una persona che ho già incontrato. Il mio dolore intanto
sembra quasi sparito. Attendo ancora un minuto, infine compongo di nuovo quel
numero di telefono. Risponde la medesima voce, con un accento diverso, come assumendo
la consapevolezza di qualcosa che la volta precedente non c’era; attendo un
attimo in più prima di riattaccare di nuovo, una frazione di tempo che a me
pare infinita, per il bisogno che ho di dare un volto a quella persona che
prosegue a rispondere con cortesia; assaporo anche l’eco di quel timbro
trasportato dai fili elettrici, vedo quasi l’aria da cui sono circondate quelle
labbra carnose, e infine, al culmine di tutto, lei dice soltanto: sei tu?
Bruno
Magnolfi
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