domenica 9 febbraio 2014

Ritratto di una voce.

            
            Il dolore che mi opprime da giorni sembra attenuato. Sono rientrato in casa, dopo il pranzo alla solita trattoria dove anche oggi ho mangiato qualcosa da solo in silenzio. L’interno del mio appartamento sembra lontano dalla realtà, quasi privo di qualsiasi distrazione, così mi sono subito coricato sul letto, avendo cura di spogliarmi degli abiti e di ficcarmi sotto le coperte nella luce diffusa della finestra di camera appena oscurata da queste tende. Il tepore mi fa immaginare di stare bene, la mia mente lasciata a se stessa sembra navigare senza alcuna direzione, finendo per rendermi distante da tutto.
            Vorrei non sentire troppo la necessità di rassicurarmi, eppure se resto immobile mi pare quasi che la mia sottile sofferenza si attenui, e che smettano di girarmi per la testa le strane idee che mi portano costantemente a concentrarmi sulla parte del mio corpo che prosegue imperterrita a conservarsi dolorante, nonostante i miei sforzi per ignorarla. Proseguo nel lavorio tutto mentale per cercare di tenere distanti i miei problemi, infine però mi sento esausto, accendo la luce, mi scalzo dalle coperte, infilo le pantofole e vado velocemente a sedermi davanti alla scrivania. 
            Devo fare qualcosa, penso, è inevitabile. Apro quasi con rabbia uno alla volta i tre cassetti dove tengo le piccole cianfrusaglie di sempre, e infine in mezzo a mille altre cose trovo un foglietto con un nome di donna appuntato, del quale non ho alcuna memoria. A fianco è riportato anche un numero di telefono, ma poi non c’è altro, niente che possa farmi ricollegare quell’appunto a qualcuno. Sistemo il foglietto sul piano del tavolo, richiudo i cassetti ed osservo con calma la mia calligrafia con la quale ho scritto, chissà quanti anni prima, quella piccola nota.
            Mi sembra immediatamente un aggancio con un passato che forse ho voluto rimuovere, qualcosa che per un motivo od un altro mi è parso ad un certo momento superato ed inutile. Rileggo il nome, cerco di immaginare tutto ciò che mi suscita, ma non riesco ad arrivare a un bel niente. Infine prendo in mano l’apparecchio telefonico e compongo quel numero. Suona un ricevitore remoto, squilla tre o quattro volte, infine una voce femminile risponde con una certa fermezza chiedendo chi sia al telefono. Riattacco; non mi viene ancora a mente nulla che possa aiutarmi, però quella voce mi è parsa interessante, anche se non riesco in nessuna maniera a collegarla con una faccia. Il mio dolore si fa ancora sentire, però lo ignoro, quasi con puntiglio e con decisione.
            Penso ancora alla voce: mi pare si possa immaginare dei capelli lunghi tenuti raccolti dentro una crocchia sopra la nuca; un’espressione del viso luminosa, intelligente; un lieve trucco appena accennato sopra le palpebre di un paio d’occhi nerissimi e senz’altro pungenti. Quasi sicuramente degli orecchini piccoli e di buon gusto coronano questa espressione, ma non riesco a riconoscerla, non è una persona che ho già incontrato. Il mio dolore intanto sembra quasi sparito. Attendo ancora un minuto, infine compongo di nuovo quel numero di telefono. Risponde la medesima voce, con un accento diverso, come assumendo la consapevolezza di qualcosa che la volta precedente non c’era; attendo un attimo in più prima di riattaccare di nuovo, una frazione di tempo che a me pare infinita, per il bisogno che ho di dare un volto a quella persona che prosegue a rispondere con cortesia; assaporo anche l’eco di quel timbro trasportato dai fili elettrici, vedo quasi l’aria da cui sono circondate quelle labbra carnose, e infine, al culmine di tutto, lei dice soltanto: sei tu?


            Bruno Magnolfi

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