A volte ho paura. Di
ascoltare i soliti discorsi ad
esempio, di compiere i medesimi gesti, di vedere le
medesime espressioni sul viso delle persone che incontro, esattamente identiche
a quelle che ricordavo di quelle stesse persone fino ad un attimo fa, senza che
sia intervenuta ultimamente una benché minima variazione. Andarsene, cominciare
tutto quanto daccapo ma in un luogo diverso, dove dimenticare la mia paura, questo
è il sogno che mi prende ogni notte; e soprattutto
non sentirmi divenire ogni giorno sempre più simile agli altri, integrato,
identico a tutti, privo di qualsiasi connotazione riconoscibile come propria.
Guardo le case di questa
cittadina, e immagino le persone che con ogni probabilità si stanno muovendo
leggermente all'interno di quelle mura che vedo intorno a
me, mentre cammino per strada; sistemano qualcosa con
calma, si occupano dei loro piccoli problemi, compiendo forse i gesti di
sempre, pensando gli stessi pensieri invariabili, sperando sicuramente che
tutto con normalità migliori per loro, che le
cose in qualche modo procedano, si aggiustino,
pur senza grandi sommovimenti, giusto poco per volta, con piccoli balzi in
avanti nel tempo, ma quasi impercettibili. Una grande
contraddizione ammanta tutti, senza che nessuno se ne sia neanche
accorto, perché i più proseguono a credere che
qualcosa di buono avverrà senza dubbio nei prossimi tempi, alcuni poi ne sono
già più che sicuri, e urlano agli altri le proprie convinzioni; e quelle loro
certezze, chissà come, tengono immobili i diversi desideri sparsi di alcuni.
La mia paura sostanziale
è quella che tutto, un giorno o l’altro, degeneri;
certo, evitando di virare improvvisamente in
cataclismi di eccezionale portata, sbandando verso chissà quali strade
traverse, però cambiando ogni cosa che
conosciamo con una grande lentezza, sommessamente, verso una
nuova normalità, qualcosa che poco per volta possa rimpiazzare, senza
che nessuno ne abbia coscienza, le abitudini di tutti
con altre piccole attività apparentemente sviluppate, ma nella realtà sempre più
peggiorative, e senza strascichi apparenti. Di questo ho paura: di adagiarmi a pensare ciò che pensano in questo momento già in
molti, e di smettere lentamente di essere me stesso come sono sempre stato fino
ad ora.
Quando fermo per strada qualcuno, perché
io cerco sempre di parlare con le persone, di spiegare loro il mio punto di
vista, senza pretendere che divenga lo stesso anche per gli altri, in genere mi
prendono semplicemente per uno svitato, uno che racconta delle cose perlopiù
strampalate, che non hanno né capo né coda, e mi stanno ad ascoltare giusto per
qualche momento, assumendo un mezzo sorriso sopra la faccia, ma soltanto per
tenermi buono, per non avere da me problemi maggiori. Sono andato a scuola con
Marisa Carraresi quando ero piccolo, e già a quell'epoca qualcuno dei miei
compagni mi teneva a distanza, dicevano che ero un po’ strano, e con questo mi etichettavano quasi tutti, ma lei
no, lei mi ascoltava generalmente con grande serietà, valutava tutte le parole
che le dicevo, ed invece di darmi dei consigli come facevano i più benevoli, o
ignorandomi come in genere facevano gli altri, mi diceva che le procurava
piacere ascoltare il mio modo di vedere le cose, proprio perché non era quello
di tutti.
Mi piaceva Marisa Carraresi,
evidentemente la sentivo più vicina di tanti altri a quell'epoca, ed anche se
in seguito, com'era inevitabile peraltro, ci siamo persi, io non ho mai smesso
di pensare a lei qualche volta, forse soltanto perché tutto sarebbe potuto
essere diverso, se solo lei lo avesse voluto. Adesso rimpiango molto in certi
momenti il suo modo particolare di guardarmi negli occhi, forse soltanto perché
non ne ho più trovato uno uguale.
Bruno Magnolfi
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