Lei
è lì, non l’avevo neanche mai vista prima, saranno dodici o quindici metri
dalla panchina dove sono seduto, seduta su di un’altra identica panchina messa
di fianco, al margine del camminamento intorno ad una piccola vasca rotonda per
i pesci rossi, nei giardinetti pubblici di questo quartiere. Nessuno dei due
indossa protezioni, quindi non mi posso avvicinare o sedermi accanto a lei,
forse potrei solamente chiederle qualcosa da lontano, ma ogni frase che in
questo momento mi viene alla mente mi pare così scontata o addirittura banale da
lasciarmi privo di qualsiasi fonema, incapace di pronunciare anche una sola parola,
mostrandomi però come se già il mio riserbo e questo silenzio convinto, potesse
assumere in qualche modo un certo valore ai suoi occhi. Lei legge un libro, ma
si ferma ogni tanto, osserva qualcosa intorno a sé e poi qualche volta incrocia
il mio sguardo, tanto che sto pensando di farle un sorriso, oppure una smorfia
di simpatia, giusto per tentare di smuovere questa penosa e insopportabile
sospensione. Ma non mi decido a fare un bel niente, restando qui semplicemente
seduto, immobile, a guardarla ogni tanto, fino al momento in cui lei, chiuso il
libro, si alza con calma per andarsene via.
Il
viottolo di ghiaia che subito prende è quello che porta alla strada asfaltata
fuori dal giardinetto, varcando un pesante cancello di ferro battuto, ed io
penso che devo fermarla in qualche maniera prima che giunga a superare quel passo,
non perché ci sia una ragione precisa per farlo, quanto per una specie di
traguardo che in questo momento mi pongo. Così affretto la mia camminata dietro
di lei, e già il rumore dei sassolini sotto alle scarpe sono un indizio evidente
del fatto che la sto seguendo, ma non aspettandomi certo che lei potesse
girarsi verso di me, la chiamo nella maniera più stupida che mi possa venire
alla mente: “signorina”, le fo con un tono che sembra già tolto dalla buffa
recitazione di un attore del cinema, però lei si ferma, si volta, mi guarda, ed
attende con rassegnazione il resto del mio debole darle disturbo. Mi blocco a
distanza di sicurezza, con un gesto le faccio presente che non ho la
protezione, lei sorride leggermente della mia evidente goffaggine, poi: “non l’avevo
mai vista da queste parti”, le dico.
Lei
ha molta pazienza, sorride, osserva qualcosa da qualche parte togliendo il suo
sguardo dalla mia sciocca espressione, non mostra però desiderio di andarsene
subito, ma neppure la volontà in ogni caso di avviare una pur semplice
conversazione con me, lascia soltanto che la nostra distanza in qualche maniera
si faccia maggiore, forse per quei modi che ho avuto assolutamente inadatti,
forse perché ritiene quanto le ho detto una sciocchezza da niente. Trascorre un
secondo infinito, poi due o anche tre, ed in questo stallo lei muove il suo
libro da una mano a quell’altra, come indecisa se lasciarmi così senza
aggiungere niente, oppure scagliare contro di me una parola secca, che non
lasci alcun dubbio. Abbasso lo sguardo; “sono uno sciocco”, le fo, tornando ad
essere per un momento un po’ meno affettato. “E’ così difficile sentirsi
naturali in questo momento, che si riesce alla fine ad essere unicamente
impacciati. Parlo soltanto per me, mi pare ovvio”. Lei mi concede uno sguardo
di un attimo, poi torna a voltarsi e a riprendere la propria via, ma dopo due
passi si ferma di nuovo, a cinque o sei metri da me, in sicurezza: “non è molto
che abito da queste parti”, mi dice con una voce meravigliosa. “Può anche darsi
che accada di incontrarci di nuovo”.
La
lascio andare, lei supera il pesante cancello spalancato, prende da una parte
senza girarsi, e sparisce così alla mia vista. Chissà, penso io, forse potremo
davvero tornare a incontrarci; o magari è persino meglio che questo non debba
accadere. Non so, rifletto con calma; in qualsiasi caso va bene così: non
avevamo niente da dirci quest’oggi, e può darsi che neppure incontrandoci
ancora riusciremo davvero a trovarli, gli argomenti di conversazione più
adatti.
Bruno
Magnolfi