Il mio nuovo compagno di banco sta male, rifletto.
Lo guardo: lui è pallido, stringe gli occhi, si ripiega sulla sua seggiola, e
alla fine chiede alla maestra il permesso per uscire, per andare in bagno,
credo. Io sono diviso tra il desiderio sentito che lui stia meglio piuttosto in
fretta, e la preoccupazione per quello che potrà venirne a me dei suoi
malesseri, se lui addirittura dovesse andare via perché non riesce più neppure
a stare nella scuola. I miei compagni sarebbero pronti a sostenere che io porto
male, e che non mi si può rimanere accanto troppo a lungo, perché il mio
influsso malefico è subito pronto a scaturire e a fare danno. Attendo qualche
minuto, poi mi alzo in piedi chiedendo di parlare con l’insegnante. Lei mi fa
un cenno, io mi avvicino in fretta alla cattedra, le dico sottovoce che sono
preoccupato per il mio compagno, e forse sarebbe il caso che io andassi a
vedere che cosa gli stesse succedendo. La maestra fa una pausa, guarda in giro
tutta la classe, poi, senza tornare a guardarmi, dice svelta: <<Va bene,
Paolo, però torna in fretta>>.
Esco nel corridoio, e mentre richiudo la porta
dell’aula provo un’improvvisa sensazione di benessere, come se avessi
riacquistato all’improvviso una certa libertà. Il mio compagno qui intorno non
si vede, sicuramente è in bagno, penso, ma io non voglio passare per un tipo curioso,
così mi avvicino lentamente alla porta dei servizi, ma poi rimango lì, sulla
soglia, senza decidermi a fare niente. Dopo qualche minuto, sento dei rumori
d’acqua, così entro dentro e lo trovo mentre si sta sciacquando la faccia, e
dice subito che ha appena vomitato. Gli dico che mi dispiace, e che adesso però
inizierà sicuramente a stare meglio, e lui non mi risponde, perché continua a
bagnarsi e basta.
Adesso sono in casa, attendo con pazienza l’orario
per recarmi a lavorare, e mi pare di sentire un peso sullo stomaco, come se
anche a me in questo esatto momento potesse prendere un deciso malessere. Cosa
posso fare per il mio compagno di banco, mi chiedo insistentemente senza
trovare una risposta. Poi lui si asciuga la faccia e muove le gambe come per
tornare in classe, giudicando di sentirsi meglio, immagino.
<<Aspetta>>, gli dico; <<Possiamo essere amici, se vuoi,
possiamo aiutarci a vicenda, sentirsi rassicurati dalla nostra vicinanza,
almeno in certi casi>>. Lui si ferma, mi guarda, non so cosa stia per
dirmi, e forse mi sento un po' preoccupato anche per questo, tanto che al
momento non riesco neppure a formare un’espressione sensata. Trascorrono così
alcuni secondi, lui forse comprende che la mia presenza lì significa
esattamente ciò che ho appena finito di dire, ed all’improvviso sbotta, con
ironia, come se già per tornare dall’insegnante ci volesse un certo coraggio:
<<Dai, rientriamo>>, mi fa, senza neppure attendere la mia
opinione, ed io gli vado dietro, non so se per accondiscendere a qualcosa, o
solo perché riconosco che dobbiamo per forza fare così. Devo prepararmi per
andare a lavorare, adesso, ed affrontare il turno di portiere di notte in quel
solito albergo, avendo il cuore il più possibile leggero, tranquillamente
insomma.
L’insegnante sembra risentita: abbiamo messo troppo
tempo, non è permesso stare nei corridoi in più di uno, e se il mio compagno aveva
una qualche giustificazione, considerato il suo momentaneo malessere, io non
avrei mai dovuto trattenermi così a lungo. Sono nel torto, rifletto, quindi non
ho alcuna possibilità di discolparmi, anche se vorrei tanto urlare in questo
momento che stavo solo tentando di aiutare un amico, io che di amici non ne ho,
e che non importa niente ciò che possa pensare lei, ma io dovevo per forza
comportarmi in quella esatta maniera. Tutti ridono, non ne capisco neanche il
motivo, mentre io rimango in piedi di fronte alla maestra che affonda i suoi
giudizi su di me, e quando mi volto per guardare meglio, mi accorgo che anche
il mio compagno di banco sta divertendosi e ridendo alle mie spalle di questa
situazione che si è verificata. Tutto normale, penso subito dopo, mentre alla
fine torno a sedermi, graziato infine dall’insegnante soltanto perché deve
parlare a tutta la classe di non so neppure quale condottiero della storia
nazionale. Non importa, penso; dovevo immaginarmi che un tentativo così sarebbe
risultato solo goffo e inadeguato. E mentre esco di casa, pensando all’albergo
e all’angolo del ricevimento che sarà il mio semplice rifugio anche per
stanotte, ritengo per consolazione che la mia solitudine sia qualcosa che ho
coltivato a lungo, ogni volta, con ostinazione, fino ad accorgermi di come
tutti si siano allontanati da me, certo, ma probabilmente anche soltanto per
una sorta di rispetto verso i miei principi. Però, più probabilmente, penso poi
con una certa convinzione, sono io che adesso cerco solamente di apparire
vittima di una mentalità diffusa, e di coprire in questo modo i miei difetti,
le mie lacune, le mie incapacità.
Bruno Magnolfi
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