<<Ehi, Paolo. Ti chiami Paolo, vero?>>, dice qualcuno mentre usciamo da scuola e ci riversiamo tutti assieme in via delle matite, prima di andarsene ognuno verso casa propria, i più piccoli alla mano di un genitore, e gli altri a gruppetti, senza alcun adulto con loro. Mi volto, e vedo che chi mi chiama è un ragazzo più grande di me, uno con il quale non ho mai neppure parlato fino ad oggi, anche se ovviamente conosco di vista, un tipo molto di compagnia con chi frequenta, sempre insieme a qualcun altro a ridere e a parlare a voce alta, ma che adesso si avvicina a me da solo, scuro in faccia, come per chiedermi qualcosa di preciso. <<Mi hanno detto che tu hai qualcosa contro di me>>, mi fa con serietà e fermezza. Io mi schernisco, alzo le spalle, vorrei dimostrargli già soltanto col comportamento che una cosa del genere non può essere vera, ma quello mi guarda fisso, lo sguardo minaccioso, le mani fuori dalle tasche, e mi sbarra il passo, come a pretendere una rapida risposta esauriente. <<No, no di certo>>, dico alla fine. <<Non ti conosco nemmeno, perché mai dovrei avere qualcosa contro di te?>>, spiego a voce bassa, forse con un leggero tremito improvviso nelle mie parole. Lui allora passa subito a dei modi diretti e aggressivi, puntandomi un dito ad un centimetro dalla faccia, e dicendo: <<sei una mezza cartuccia, una nullità, i tuoi pensieri non devono neppure avvicinarsi ad uno come me; ti è chiaro?>>. Lo guardo, indeciso se rispondergli o meno, cioè se sia salutare per me dargli una risposta o fare una qualsiasi altra cosa, oppure niente e subire in silenzio i suoi comportamenti. Sicuramente lui non aspetta altro che io reagisca alle sue spudorate provocazioni, e forse è pronto a darmi una spinta, un pugno, o a farmi del male. Sto zitto, ma proseguo a guardarlo, e forse questo lo infastidisce e gli basta ampiamente per assestarmi improvvisa una pedata in un ginocchio, probabilmente perché solo con i piedi gli va di toccare uno come me.
Inizio a piangere per il dolore, mi piego ad
abbracciare la gamba, lui sembra adesso abbia intenzione di andarsene, ma poi
si gira e mi dice secco: <<Stai attento, ti tengo d’occhio; qualsiasi
cosa fai o dici in giro io riesco a saperla immediatamente>>. Me ne vado
anche io, dopo pochi minuti, leggermente zoppicando, e qualcuno tra gli altri
ragazzi sul marciapiede mi guarda distaccato ma senza chiedermi niente, mentre
io d’improvviso mi sento completamente da solo, come se nessuno di tutti quanti
i miei compagni di scuola riuscisse a considerarmi davvero come uno di loro.
Vado verso la mia casa cercando di camminare nel modo più naturale possibile,
così da non dare la possibilità alla mia mamma di farmi delle domande
inesistenti su ciò che mi fosse accaduto. Adesso, guardo Paolo con quasi
cinquant’anni di ritardo, e sento ancora montarmi dentro una sensazione di
forte rancore, come se non fossi stato capace, per tutto questo tempo, di
riuscire a passarci sopra del tutto. Controllo, sul registro delle presenze
scritto a mano, le diverse calligrafie dei vari portieri che durante il giorno
si sono avvicendati dietro a questo bancone, e mi ritrovo a fantasticare sul
fatto che un mio collega tra coloro che hanno riportato sulla carta i nomi dei
clienti del giorno, sia la versione invecchiata proprio di quel ragazzo che mi
procurò con indifferenza un malessere fisico di almeno una giornata, ed uno
psicologico che forse tuttora porto ancora con me.
In seguito, riuscii a fregarmene a sufficienza di
quello che mi aveva detto quel mio pseudo compagno di scuola, ma poi scoprii
che c’era stato qualcuno che inventandosi tutto di sana pianta era andato a
riferirgli delle cose su di me che gli avevano fatto perdere le staffe. Insomma,
era stato una specie di complotto ai miei danni ordito da qualcuno forse per
gioco, o per scommessa, senza alcuna preoccupazione circa le conseguenze
possibili. Per un certo tempo rimasi a chiedermi chi potesse essere stato a mettere
in piedi un comportamento del genere ai miei danni, ma non avendo scoperto
niente al riguardo, forse perché nessuno tra coloro in condizione di conoscere
la verità, provava il minimo desiderio di fare la spia, decisi che era il caso
di voltare la pagina, e così disinteressarmi del tutto di questa faccenda. Ma
se da un lato ero convinto del giusto atteggiamento che avevo assunto,
dall'altro, per molti anni ancora durante la notte, proseguii ad avere ogni
tanto degli incubi in cui appariva un dito indice che mi intimava qualcosa.
Quindi, per una semplice reazione, iniziai a pensare, e lo penso ancora oggi,
che il mio nemico poteva, e può essere, praticamente dovunque, e soprattutto
celarsi sotto alle spoglie di qualcuno che mi sta addirittura molto vicino. Mi
guardo attorno, studio i presenti, cerco di interpretare i loro pensieri, e
cerco così di tenermi alla larga dai guai.
Bruno Magnolfi
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