Un tizio,
un cliente del nostro albergo, ma che comunque non avevo mai notato in
precedenza, scende lentamente dalle larghe scale che portano ai piani delle
camere e mi saluta, mentre come sempre a quest’ora mi trovo da solo dietro al
bancone del ricevimento. Con un italiano vagamente stentato mi chiede se fosse
possibile avere qualcosa da bere, ed io gli rispondo subito:
<<Naturalmente>>, ed esco dalla solita postazione per andare
diretto nella saletta del bar e servirgli qualcosa. <<Mia moglie sta
dormendo>>, mi dice il tipo, <<ma io mi sento nervoso, e non riesco
proprio a prendere sonno>>. Gli dico che, se vuole, posso fornirgli un
sonnifero, ma lui non accetta, <<Non sono abituato>>, risponde,
<<e forse potrebbe persino farmi male>>, dice alla svelta. Si siede
su uno degli alti sgabelli davanti al bancone per la somministrazione delle
bevande, e sembra proprio che non abbia neppure troppa voglia di parlare con
me, come al in genere succede, tutto al contrario, con qualche altro cliente.
Attendo alcuni momenti dopo averlo servito, poi mi sposto da dietro la macchina
del caffè e vado a riprendere il mio posto al ricevimento. Dopo un po’ lui mi
segue, sempre con il suo bicchiere tra le mani, ed infine mi chiede se sia
troppo noioso, oppure magari impegnativo, il lavoro che svolgo. Sorrido, poi
dico: <<è un tipo di domanda che non mi pongo più da parecchio, visto che
svolgo il portiere di notte da tantissimo tempo, e quindi sono abituato agli
orari e anche al resto; in ogni caso mi piace, mi va bene così, questo starmene
da solo ogni notte a riflettere su tutto e su tutto ciò che desidero, sembra
sia proprio quello che mi interessa maggiormente>>.
Il tizio
annuisce, dimostra di aver ben compreso le mie parole, così dice: <<Non
la disturberò ulteriormente con le mie chiacchiere, magari faccio un giro per
la strada qua attorno all’albergo, e poi torno tra una mezz’ora>>.
Sorrido, va bene, penso senza rispondere niente, così lui mi consegna il
bicchiere ormai vuoto e si avvia, oltrepassando la grande porta vetrata che dà
direttamente sulla piacevole piazzetta antistante. Anche quando frequentavo la
scuola elementare, in via delle matite, le mie risposte erano spesso di questo
tipo, poco incoraggianti nei confronti degli altri, e certe volte addirittura
taglienti, come se i miei compagni mi procurassero un dispiacere nel rivolgermi
una domanda o cercando di parlare con me. <<Sei sempre il solito>>,
diceva il mio compagno di banco di turno, dopo che aveva imparato a sue spese i
miei tipici comportamenti. Carlo invece era diverso da tutti. Spiegava certe
volte che lui avrebbe sempre voluto nella sua vita il meglio possibile per sé
stesso, e che non si sarebbe mi accontentato di un futuro mediocre. Mi
affascinava la sua sicurezza nel dire cose del genere, anche se immaginavo che
prima o dopo si sarebbe dimenticato facilmente di queste sue idee, ed avrebbe
abbracciato un’esistenza normale, esattamente come quella che vivono tanti
altri. Persi le sue tracce quando mi trasferii in città con mio padre e mia
madre, ma già il fatto di non aver più sentito parlare di lui da qualcuno dei
vecchi compagni rivisti in seguito, dimostra che probabilmente avrà finito per
accontentarsi, un po’ come tutti.
Mi siedo,
per starmene comodo, mentre tengo d’occhio la porta vetrata dell’albergo, in
maniera che, se ritorna il cliente di prima, posso aprirgli rapidamente
pigiando il pulsante elettrico sopra al bancone, ancora prima che lui si metta
a suonare l’apposito campanello. Forse, essere scostanti con gli altri non è
mai una buona cosa, rifletto, però, anche se questa è una faccenda a cui ho
pensato altre volte, non si può essere troppo diversi da come si è, e in ogni
caso torna assurdo cercare di costruirsi una personalità diversa da quella che
ci caratterizza, sempre che si possa riuscire in un’impresa del genere. Poi
torna il cliente, e mi dice che la serata è molto bella e che fuori regna una
calma quasi perfetta. Annuisco, mentre lui riprende la sua chiave e sale con
l’ascensore per andarsene in camera: ognuno di noi è un mondo completo,
rifletto, ma poi sorrido tra me, visto che un pensiero del genere sa di
estremamente banale e risaputo. Il mio compagno delle elementari, Carlo, vorrei
adesso immaginarlo chissà dove, magari all’estero, indaffarato, preso da grandi
progetti, ad occuparsi di faccende estremamente interessanti, ma non riuscirei
ad invidiarlo, neanche se fosse davvero così. Non eravamo amici, troppo diversi
per scambiarci frasi e pensieri, però ci studiavamo a vicenda in qualche
occasione, forse ognuno attirato dalla personalità di quell’altro, in qualche
maniera. Alla fine, lo consideravo un solitario, quasi come me: lui perché
capace di zittire gli altri con le sue maniere da adulto sicuro di sé, ed io
con la mia timidezza che mi portava costantemente ad evitare e purtroppo a
farmi evitare un po’ da tutti, proprio come diceva a volte la maestra a mia
madre.
Bruno
Magnolfi
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