Basta. Mi
sono stufato di questo ragazzino, di questa presenza che spesso parla con me, e
poi ingombra ogni giorno tutti i miei pensieri, giungendo costantemente a
chiedermi conto di quello che è realmente avvenuto nel corso degli anni, e di
quello che invece poteva facilmente essere cambiato, a suo parere. Devo
guardare in avanti, cercare di migliorare poco per volta almeno qualcosa delle
mie giornate, e magari fare qualche progetto costruttivo per impegnarmi in un
senso oppure nell’altro. Mi rendo conto come i miei anni di frequenza della
scuola elementare siano stati caratterizzati dal mio costante rifiuto di
assomigliare agli altri compagni, e quindi quanto tutto questo abbia definito
molte cose nel proseguo, addirittura nei decenni che si sono accavallati fino
ad oggi, ma è indubbio che io non potevo essere diverso allora da come mi
presentavo, e che tutto è scivolato via in maniera naturale, senza mai mostrare
troppa applicazione da parte mia. I rimpianti, o le mie recriminazioni di
adesso, non hanno alcun senso. Devo accettare quello che è stato, i miei errori
e le mie incapacità, e se ancora riesco a mandare in avanti un’esistenza ordinaria,
pur immerso in una costante solitudine, devo contentarmi di quello che ho, e di
che cosa sono riuscito a mettere assieme.
Entro in
classe già con disagio, ed il fatto che immediatamente raggiungo il mio banco
senza neppure osservarmi attorno, né salutare i miei compagni, dice già molto del
mio carattere che porta spesso ad isolarmi dagli altri. Qualche volta loro mi
fanno trovare un foglietto sulla mia sedia con su scritto qualcosa di poco
piacevole, oppure per scherzo vi appoggiano direttamente il cestino dei
rifiuti. Il messaggio è sempre molto chiaro: nessuno desidera avere intorno un
compagno che non parla mai, che non chiede niente, che sembra perennemente irritato
di ciò che ha vicino a sé, come se desse la colpa di chissà che cosa magari a
qualcuno di quei bambini che ritrova ogni giorno nell’aula. Tutti ridono mentre
stanno insieme, e si scambiano opinioni, e poi parlano delle proprie cose. Io
no: non mi interessa la superficialità delle loro storielle e delle barzellette
che si raccontano; mi siedo, sistemo il mio banco, l’astuccio, i libri e anche i
quaderni, ed osservo qualcosa sul muro di fronte a me, nell’attesa paziente che
abbia inizio la giornata scolastica, e in seguito finalmente anche un termine. Forse
non frequento troppo volentieri questa scuola, però mi sento curioso, e poi mi
piace imparare nuove cose, tanto che sono sempre felice quando la maestra
prosegue per tutta la mattinata a spiegare quegli elementi e quelle vicende che
credo sia necessario conoscere alla nostra età. Mi piace leggere, e quando
scorro le frasi e le parole di un libro, dimentico facilmente persino dove mi
trovo, e con facilità credo di riuscire ad immedesimarmi in qualcun altro, direttamente
nelle descrizioni che scorro, e di proiettarmi rapidamente in altri scenari che
sono sempre capace di immaginare.
Qualche
volta la maestra scandisce il mio nome ad alta voce, e poi mi fa alzare in
piedi, ponendomi delle domande sulle varie materie che compongono il suo
insegnamento. Se so rispondere spiego ciò che ho studiato in maniera sintetica e
decisa, ma se non riesco a dare un vero seguito alla sua domanda, preferisco restare
in silenzio, piuttosto che cercare di masticare qualche sciocchezza. Sento
ridere sommessamente qualcuno tra i miei compagni, mentre mostro agli occhi di
tutti il mio silenzio colpevole. <<Paolo>>, dice allora la maestra;
<<forse questa materia non ti appassiona troppo? Oppure queste pagine del
tuo libro sono rimaste incollate tra di loro?>>. Le risatine sommesse
aumentano, l’insegnante sbatte una mano sul piano della cattedra;
<<silenzio>>, intima di colpo, e tutti si bloccano smettendo
persino di respirare. Poi la maestra si fa consegnare il mio diario scolastico,
e di fretta ci scrive sopra qualcosa che i miei genitori dovranno visionare.
Torno al mio banco e mi siedo; lei passa a torturare qualcun altro. Poi, però, io
torno ad alzarmi timidamente approfittando di un momento di silenzio, e dico in
fretta che forse ho sbagliato capitolo sul libro, studiando una parte che
ancora non abbiamo affrontato. <<Bene>>, fa lei; <<allora
riferisci quello che hai letto>>. Attacco parlando di una parte della
storia nazionale che fa annuire la maestra, e poi mi sento subito sciolto e
sicuro, tanto da riferire quello che so in maniera dettagliata ed impeccabile.
<<Va bene>>, dice la maestra alla fine. <<In ogni caso devi
stare più attento quando indico i capitoli o le pagine da studiare, per cui il
messaggio ai tuoi genitori resta inalterato>>.
Mi prende
un brivido ripensando a tutto questo, e mentre resto immobile dietro al bancone
del ricevimento, mi pare adesso di dover ancora riferire quello che so, anche
se non c’è nessuno di fronte a me. Sorrido, i miei compagni forse non si
aspettavano che io dicessi la verità quella volta. Difatti, nessuno di loro quel
giorno ha più trovato qualcosa di cui ridere.
Bruno
Magnolfi
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