Sono
fermo presso la mia scrivania di lavoro, seduto come sempre sopra la
poltroncina rivestita di stoffa rossa e le rotelle girevoli alla base, con gli
avambracci distesi sul piano chiaro e semilucido ingombro ai lati da cartelle,
fogli e documenti quasi tutti spillati tra di loro, e nella mia immobilità
osservo lo schermo luminoso del terminale di fronte a me, senza avere
particolari reazioni. Mi sento spossato, senza entusiasmi, incastrato tra alcuni
pensieri che non mi portano più oramai da alcuna parte, ed è come se quasi non
riuscissi a vedere niente, e le cose da fare di fronte a me e la mia stessa occupazione
di impiegato amministrativo del Comune non mi fornisse più alcuno stimolo. Lascio
trascorrere i minuti cercando di resistere alla voglia di prendere la cornetta
del telefono e di chiamarla, ora, semplicemente, in questo stesso momento, oppure
alzarmi dal mio posto di lavoro e scendere rapidamente la scalinata di questo vecchio
palazzo fino a giungere davanti alla sua scrivania, e poi osservarla per un lungo
momento, paralizzarmi quasi di fronte a lei, e infine chiedere a Monica se per
lei sia ancora possibile conservare a lungo questa specie di indifferenza verso
di me. Ma non devo farlo, devo rispettare i suoi tempi, attendere che tutto
riprenda un comportamento più abituale, senza alcuno strappo, privo perciò di richieste
e di nodi da sciogliere.
Mi
alzo lentamente, cerco di scrollarmi di dosso la sensazione che tutto stia come
sbriciolandosi senza che io possa fare niente, poi vado al bagno, mi sciacquo
la faccia, lavo le mie mani, infine mi osservo un momento nello specchio. Sembra
una tortura dover attendere che qualcosa accada; pare che io debba perdere per
forza quell’entusiasmo che mi ha provocato rapidamente quel frequentarla per
questo poco tempo che abbiamo avuto a nostra disposizione. Vorrei trovarmela di
fronte soltanto per chiederle che cosa sia che riesce a trattenerla dal farsi ancora
viva, dal darmi un segno, dal mostrare la volontà di vedermi nuovamente, di
stare ancora con me, di darmi un nuovo appuntamento; non so spiegarmi questo suo
lasciare che i giorni lenti e cadenzati e le ore che li costituiscono aprano un
varco così amaro e insopportabile nei miei desideri; ma devo resistere, mi
ripeto mentre guardo la mia faccia quasi stralunata. Devo essere indifferente a
queste lunghe pause, e tanto più sarà dura la mia attesa, tanto più sarà dolce la
sua voce al telefono quando alla fine chiamerà. Non devo dare importanza a
questo comportamento che lei riesce a tenere: sicuramente le torna naturale,
senz’altro non sta minimamente pensando di sottopormi a una tortura; è il suo
modo di fare, la sua maniera di tenere sempre con tutti una certa distanza,
forse per prudenza, per timidezza, o magari soltanto per evitare gesti
affrettati, che in fondo non servono mai a niente.
Mi
convinco, torno nel mio ufficio, i colleghi mi gettano un’occhiata senza dirmi
niente, ed io riprendo in mano le scartoffie, ripercorro mentalmente quanto
stavo facendo fino a poco fa, poi scorro rapidamente le cose che ho lasciato a
mezzo, e poco per volta ricomincio a svolgere con calma il mio lavoro,
applicandomi a quelle documentazioni, pur con uno sforzo, ma ritrovando tutto
ciò a cui poco prima stavo dando un compimento. Non devi pensare a lei, sembra
ci sia scritto da qualche parte su qualcuna di queste carte che tengo adesso
davanti agli occhi; non devi farti distrarre ancora da qualche riflessione
senza senso, che non porta mai assolutamente da nessuna parte. Non è cambiato
niente da quando ho preso a frequentare Monica; sono lo stesso, sono la
medesima persona, e ciò che sto portando avanti è solo il mio lavoro, a cui
devo applicarmi con tutto me stesso durante questo orario, senza mettere altre
cose di mezzo. Mi calmo, riprendo pienamente il controllo di tutto quanto, Monica
è distante, non è al piano sottostante di questo stesso edificio. Poi suona il
telefono interno sopra la mia scrivania. È lei, mi parla come se fosse la cosa
più normale di questo mondo, chiede di vedermi, sempre se mi va, magari di
passare da lei dopo il lavoro, a casa sua, anche se riconosce che sono diversi
giorni che non ci sentiamo, e forse dobbiamo parlare un poco di noi due.
Rispondo che va bene, che va benissimo, che
anche io avevo in mente la stessa idea precisa, ma poi mi freno, ricordo in un
lampo che avevo deciso di fare maggiormente il riservato, di farmi desiderare, di
essere meno disponibile con lei, ma ormai è fatta, non posso certo rimangiare
le mie stesse parole, perciò dico soltanto: <<Ci vediamo a casa tua nel
tardo pomeriggio, come sempre>>. Penso che probabilmente passerò un
momento dal fiorista lungo la strada, le prenderò un mazzolino, qualcosa di
simpatico e di colorato, e forse anche una bottiglia di vino buono, tanto per
festeggiare una serata forse come tutte, ma che per me improvvisamente sembra
stupenda.
Bruno
Magnolfi
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