giovedì 3 luglio 2025

Rifugio apprezzato.


            Qualche volta, ripenso alle giornate trascorse in ospedale. Adesso, a distanza di anni, mi sembrano tutte uguali, scandite, oltre che dagli orari dei pasti, soltanto da quelli della sveglia e dell’oscuramento delle lampade. I tranquillanti alla sera mi lasciavano piombare in un improvviso sonno senza sogni, ma il fatto di ritrovarmi al mattino ancora in quei luoghi così spogli e privi di colore, era per me sempre una sorpresa poco gradita. Mi adattavo a quello che era stato diagnosticato nei miei confronti, ma sapevo che quella depressione, coltivata dopo la morte di mia madre, dipendeva soltanto dalla mia forza di volontà. La convinzione ferma nella mia mente che io potessi uscire in qualsiasi momento da quello stato in cui sembravo versare, mi portava a proseguire imperterrito con il mio silenzio e con l’indifferenza a tutto, insieme ad un’apparente incapacità ad essere minimamente socievole con chiunque. In quel momento mi sembrava una vera forza di carattere quella di potermi isolare dal resto, e soprattutto il fatto di tenere così nelle mani il mio destino, mi faceva sentire costantemente al di sopra di tutto e anche di tutti. Ero cedevole, apatico, inerte, ma soltanto perché desideravo con tutto me stesso apparire così. Quasi un gioco il mio, almeno durante alcune ore del giorno, fino a lasciare agli incontri con il medico, che avvenivano una volta o due ogni settimana nel suo bianco ambulatorio, un rituale pressoché insignificante.

            <<Antonio>>, mi chiamavano a voce alta gli infermieri, forse anche per cercare di scuotermi dal torpore che mostravo, ma io tenevo lo sguardo basso, le braccia lungo i fianchi, e spesso appoggiavo la spalla ad una qualsiasi delle pareti di quel luogo, come tentassi di diventare una parte costituente di quei muri stessi. Qualcuno mi incoraggiava anche a parlare, ma io mi mostravo sempre apatico, anche se qualche volta questa posa mi pesava. Gli altri degenti che incontravo a volte nei corridoi della clinica o nel giardinetto di fronte alla costruzione, per me erano a loro volta soltanto dei fantasmi che seguivano un filo personale di ricerca, come se tutti lì dentro avessero smarrito la propria anima, tentando di trovarne traccia sopra le mattonelle delle camerate, oppure tra i cespugli radi, o tra le parole incomprensibili che certe volte mormoravano direttamente ognuno a sé stesso. Il mio silenzio naturalmente ritenevo fosse superiore ai loro sforzi, anche se qualche volta provavo la necessità di mostrare d’improvviso la mia presenza nel luogo, emettendo qualche urlo soffocato che non aveva nessun altro scopo se non quello di muovere l’aria davanti alla mia bocca.

            Sapevo che normalmente avrei potuto in qualsiasi momento mettermi a parlare con chiunque tra quei muri, ma il fatto che per me non fosse di alcun interesse farlo, evidenziava il mio carattere deciso, la mia convinzione nell’indossare una maschera del tutto inamovibile. Poi veniva a trovarmi mia sorella con suo marito, ed io lasciavo che lei mi ponesse delle domande a cui non trovavo da dare mai alcuna risposta, però i libri di narrativa che ogni volta mi portava, davano un pronto refrigerio alla mia mente, e quando qualche titolo mi appariva più gradito anche di altri, non la deludevo con il mio silenzio, ma mostravo volentieri un certo apprezzamento, sorridendo e ringraziando. In quel periodo credo di essere stato l’unico là dentro a sprofondarmi in qualche lettura, tanto che tutto questo sicuramente veniva visto come un buon segnale per il mio ristabilimento. Certi giorni pensavo che non sarei mai uscito dalla clinica, tanto più che non ne provavo alcuna voglia, ma quando meno me lo sarei aspettato il solito dottore disse che sarei andato a casa la settimana seguente, perché non avevo più necessità delle loro cure. Così mi adeguai a quanto deciso, senza mostrare opposizioni.

            Quando cercai di radunare i miei pensieri e la mia esperienza maturata dentro l’ospedale, mi parve che non ci fosse niente di positivo da portare via con me, e gli ultimi giorni trascorsi tra quelle mura imbiancate mi riempirono persino di una nuova inedia, accompagnata dall’apprensione naturale per le mie nuove giornate che mi attendevano tra poco. Il fatto di andare ad abitare nella casa di mia sorella mi lasciava abbastanza indifferente, anche se convivere con quel suo marito restava per me qualcosa di poco apprezzabile. Per lui ero sicuramente un peso di cui avrebbe voluto volentieri liberarsi, ma la situazione era tale che la sua opinione in quella abitazione probabilmente era l’ultima cosa di cui tenere conto. Mi destinarono una stanzetta sgombra, e mi tennero d’occhio per diverse settimane, forse su consiglio del dottore, probabilmente per evitare che combinassi qualche guaio o che volontariamente o meno mi ferissi in qualche modo. In seguito però, lasciarono che uscissi di casa anche da solo, magari per fare qualche acquisto semplice per mia sorella, e per tornare a socializzare con gli abitanti del paese, anche se di questo non mostrai troppo interesse. Scoprii la biblioteca invece, che iniziò rapidamente ad essere il mio rifugio più apprezzato.

 

            Bruno Magnolfi