Qualche
volta, ripenso alle giornate trascorse in ospedale. Adesso, a distanza di anni,
mi sembrano tutte uguali, scandite, oltre che dagli orari dei pasti, soltanto
da quelli della sveglia e dell’oscuramento delle lampade. I tranquillanti alla
sera mi lasciavano piombare in un improvviso sonno senza sogni, ma il fatto di
ritrovarmi al mattino ancora in quei luoghi così spogli e privi di colore, era
per me sempre una sorpresa poco gradita. Mi adattavo a quello che era stato
diagnosticato nei miei confronti, ma sapevo che quella depressione, coltivata
dopo la morte di mia madre, dipendeva soltanto dalla mia forza di volontà. La
convinzione ferma nella mia mente che io potessi uscire in qualsiasi momento da
quello stato in cui sembravo versare, mi portava a proseguire imperterrito con
il mio silenzio e con l’indifferenza a tutto, insieme ad un’apparente
incapacità ad essere minimamente socievole con chiunque. In quel momento mi
sembrava una vera forza di carattere quella di potermi isolare dal resto, e
soprattutto il fatto di tenere così nelle mani il mio destino, mi faceva
sentire costantemente al di sopra di tutto e anche di tutti. Ero cedevole,
apatico, inerte, ma soltanto perché desideravo con tutto me stesso apparire
così. Quasi un gioco il mio, almeno durante alcune ore del giorno, fino a
lasciare agli incontri con il medico, che avvenivano una volta o due ogni
settimana nel suo bianco ambulatorio, un rituale pressoché insignificante.
<<Antonio>>,
mi chiamavano a voce alta gli infermieri, forse anche per cercare di scuotermi
dal torpore che mostravo, ma io tenevo lo sguardo basso, le braccia lungo i
fianchi, e spesso appoggiavo la spalla ad una qualsiasi delle pareti di quel
luogo, come tentassi di diventare una parte costituente di quei muri stessi. Qualcuno
mi incoraggiava anche a parlare, ma io mi mostravo sempre apatico, anche se
qualche volta questa posa mi pesava. Gli altri degenti che incontravo a volte nei
corridoi della clinica o nel giardinetto di fronte alla costruzione, per me erano
a loro volta soltanto dei fantasmi che seguivano un filo personale di ricerca, come
se tutti lì dentro avessero smarrito la propria anima, tentando di trovarne
traccia sopra le mattonelle delle camerate, oppure tra i cespugli radi, o tra
le parole incomprensibili che certe volte mormoravano direttamente ognuno a sé
stesso. Il mio silenzio naturalmente ritenevo fosse superiore ai loro sforzi, anche
se qualche volta provavo la necessità di mostrare d’improvviso la mia presenza
nel luogo, emettendo qualche urlo soffocato che non aveva nessun altro scopo se
non quello di muovere l’aria davanti alla mia bocca.
Sapevo
che normalmente avrei potuto in qualsiasi momento mettermi a parlare con
chiunque tra quei muri, ma il fatto che per me non fosse di alcun interesse
farlo, evidenziava il mio carattere deciso, la mia convinzione nell’indossare
una maschera del tutto inamovibile. Poi veniva a trovarmi mia sorella con suo
marito, ed io lasciavo che lei mi ponesse delle domande a cui non trovavo da
dare mai alcuna risposta, però i libri di narrativa che ogni volta mi portava,
davano un pronto refrigerio alla mia mente, e quando qualche titolo mi appariva
più gradito anche di altri, non la deludevo con il mio silenzio, ma mostravo
volentieri un certo apprezzamento, sorridendo e ringraziando. In quel periodo
credo di essere stato l’unico là dentro a sprofondarmi in qualche lettura,
tanto che tutto questo sicuramente veniva visto come un buon segnale per il mio
ristabilimento. Certi giorni pensavo che non sarei mai uscito dalla clinica,
tanto più che non ne provavo alcuna voglia, ma quando meno me lo sarei
aspettato il solito dottore disse che sarei andato a casa la settimana
seguente, perché non avevo più necessità delle loro cure. Così mi adeguai a
quanto deciso, senza mostrare opposizioni.
Quando
cercai di radunare i miei pensieri e la mia esperienza maturata dentro
l’ospedale, mi parve che non ci fosse niente di positivo da portare via con me,
e gli ultimi giorni trascorsi tra quelle mura imbiancate mi riempirono persino di
una nuova inedia, accompagnata dall’apprensione naturale per le mie nuove
giornate che mi attendevano tra poco. Il fatto di andare ad abitare nella casa
di mia sorella mi lasciava abbastanza indifferente, anche se convivere con quel
suo marito restava per me qualcosa di poco apprezzabile. Per lui ero
sicuramente un peso di cui avrebbe voluto volentieri liberarsi, ma la
situazione era tale che la sua opinione in quella abitazione probabilmente era
l’ultima cosa di cui tenere conto. Mi destinarono una stanzetta sgombra, e mi
tennero d’occhio per diverse settimane, forse su consiglio del dottore,
probabilmente per evitare che combinassi qualche guaio o che volontariamente o
meno mi ferissi in qualche modo. In seguito però, lasciarono che uscissi di
casa anche da solo, magari per fare qualche acquisto semplice per mia sorella, e
per tornare a socializzare con gli abitanti del paese, anche se di questo non
mostrai troppo interesse. Scoprii la biblioteca invece, che iniziò rapidamente
ad essere il mio rifugio più apprezzato.
Bruno
Magnolfi