Non mi interessa, ero
pronto a spiegare al citofono a quell’anonimo che aveva appena suonato il mio
campanello di casa, un piccolo appartamento del terzo piano, immaginando
qualcuno delle vendite porta a porta che ti infastidiscono per ore con un prodotto
o un servizio di cui in genere già alla partenza si ritiene di poter fare a
meno benissimo. Invece nessuno aveva parlato, silenzio, come se la mia laconica
risposta fosse già stata inglobata all’interno di quel trillo elettrico.
Naturalmente pensai
ad uno sbaglio o a qualche ragazzo in vena di scherzi, e tornai a sedermi sulla
poltrona, riprendendo in mano il giornale e dimenticandomi subito di quella
faccenda. Invece, dopo neppure dieci minuti, il campanello tornò a farsi
sentire. Stavolta feci scattare il meccanismo di apertura del portone e mi
affacciai sulle scale, per rendermi conto di persona chi potesse essere a
infastidirmi così.
Una donna saliva
lentamente le scale, senza minimamente sollevare lo sguardo per farsi vedere,
così io, con pazienza, lasciai che completasse tutte le rampe, fino a quando,
tenendo leggermente sollevata la lunga sottana con una mano, lei giunse a due
gradini dal mio pianerottolo, si soffermò, poi mi raggiunse allungando la mano
come a volersi presentare, ma restando in silenzio. Buongiorno, dissi io, senza
riuscire assolutamente a capire quale potesse essere il motivo che aveva fatto
arrivare fino da me quella persona. Posso entrare?, disse lei già infilandosi
nel portoncino, così io non riposi neppure, e mi limitai soltanto a seguirla,
improvvisamente preoccupato di qualcosa che neanche io al momento avrei saputo
spiegare.
Sono Rosanna, disse
lei una volta giunta nel corridoio e voltatasi verso di me; eravamo bambini
insieme, tanti anni fa, ti ricordi? Io non ricordavo assolutamente un bel
niente di quanto andava dicendo quella signora per me sconosciuta, anche se
forse potevamo veramente esserci frequentati da piccoli, e comunque annuivo
lasciando che continuasse a parlare, anche soltanto per capire quale fosse il
motivo finale di quella sua visita. Ho bisogno di te, diceva lei, devo riuscire
a farti ricordare qualcosa di quel periodo, qualcosa che per me è estremamente
importante.
Naturalmente la
invitai a sedersi, a parlare con calma di quelle faccende di cui mi pareva all’improvviso
di rammentare qualcosa, la strada dove abitavamo, qualche nome a cui aveva
accennato, ma quella donna continuava a guardarmi come se non avesse alcuna
voglia di parlarmi a lungo di quel periodo, e le fosse sufficiente così, come
se le bastasse starsene lì con gli occhi sulla mia faccia, mantenendo
un’espressione tra il sorridente e il commosso, e non avesse bisogno di altro.
Infine chiese semplicemente di scusarla, per lei quell’infanzia era stato il
periodo più bello della sua vita, e sapere che c’era qualcuno che aveva vissuto
la sua stessa esperienza le faceva un enorme piacere.
Si alzò,
all’improvviso, senza neppure accettare il caffè che le avevo proposto, disse
che era meglio se andava, che forse non avrebbe neppure dovuto venire, poi, ormai
sulla porta, si volse verso di me, mi guardò ancora una volta come soltanto una
donna innamorata può fare; guardò i miei capelli, i miei occhi, come a scolpire
nella memoria quei tratti, e infine riprese le scale, senza aggiungere altro.
Per tutta la sera pensai a lei, al nostro esser stati bambini, senza che a me
fosse rimasta di quel periodo la stessa traccia importante che lei aveva
conservato per così tanto tempo. Più tardi, sul pavimento, trovai un piccolo
foglio piegato, lasciato casualmente in un angolo: ti ho amato, diceva;
nient’altro.
Bruno Magnolfi