In
questo reparto adesso c’è silenzio. Non è tardi, ma hanno già smorzato le luci,
e si riesce soltanto ad avvertire ogni tanto qualche lontano colpo di tosse, ed
un ronzio sottile, proveniente chissà da dove. Mi rivolto nelle lenzuola
bianche del mio letto, cerco soltanto una posizione comoda e rannicchiata,
immaginando questo alto edificio, visto da fuori le vetrate, come una grande
nave che manovra lentamente, dentro alla notte insidiosa della città, in mezzo ai
problemi e alle preoccupazioni di sempre, che tengono sicuramente svegli molti
dei suoi abitanti.
Scorre
il fiume, laggiù, da qualche parte, con la sua costante portata d’acqua,
proprio come questa flebo accanto a me, che prosegue a stillare una goccia dopo
l’altra, lentamente. Se penso al giorno che deve ancora sorgere, mi sembra così
lontano da riuscire a definirlo già un punto d’arrivo, quasi un traguardo, non
perché le mie condizioni siano così compromesse da farmelo pensare, quanto
perché tutto stasera pare scivolare in un tempo surreale e rallentato, quasi
immobile.
Cerco
di pensare qualche cosa che mi porti lontano da questo luogo, ma riesco solo a
immaginarmi le molte espressioni di tutta questa gente che viene custodita qui,
insieme a me, proprio dentro questo edificio tecnico, che si muove quasi
impercettibilmente insieme a tutto l’enorme palazzo di vetro e di cemento che
costituisce la nostra provvisoria residenza. Tutti qui avrebbero probabilmente
bisogno di sentirsi fuori dagli schemi, capaci di qualcosa che non osano
neppure sognare, ma magari sono solo io che mi sbaglio: forse quegli stessi intorno
a me stanno pensando la medesima cosa di cui anche io provo una voglia
irresistibile.
Insieme
probabilmente potremo girare per tutta la città, poi magari fare rotta persino
verso il quartiere dove abito, quel groviglio di strade che frequento da così
tanti anni da riconoscerne ogni angolo persino ad occhi chiusi. Probabilmente
sono soltanto troppo ottimista, ma potremo magari transitare proprio lungo la
via dove sta il mio condominio, con il piccolo appartamento al terzo piano dove
sono racchiuse praticamente tutte le mie cose. Ci penso meglio, con maggiore
pacatezza, e ad un tratto mi sembra che quello che ho riflettuto appena adesso non
sia del tutto vero: sono qui le mie cose, penso, insieme a me; non ho bisogno
di nient’altro che di quello che ho qui, in mezzo a queste semplici lenzuola.
Forse
sarebbe addirittura possibile, se rimango sveglio e attento in questa notte
così particolare, affacciarmi a questa larga finestra nel momento giusto,
salutare con la mano i miei vicini di casa, tutte le persone che mi conoscono e
che forse si sono accalcate sopra al marciapiede per assistere a questo evento
così particolare. Il transatlantico su cui stiamo viaggiando potrebbe addirittura
lasciarmi sbirciare molti dei luoghi a cui sono legato: il giardinetto dove
spesso mi reco, il negozio dove vado per gli acquisti, l’albero sulla cui
corteccia tanti anni fa incisi con leggerezza il nome di lei. Se faccio
attenzione, potrei addirittura vederli passare proprio qui davanti, non come una
visione nostalgica, o peggio per provocare in me quella commozione che sicuramente
potrebbero scatenare, ma soltanto per una sorta di omaggio a ciò che conosco e che
fa parte di me, quasi un elenco delle cose a cui tengo, niente di particolarmente
diverso.
Poi
potremmo partire, allontanarci davvero da tutto questo, viaggiare durante ore
buie ed inutili per andare ad avvicinarci poco per volta a mete sconosciute, a
luoghi mai visti, pur rimanendo immersi in questo silenzio crepuscolare dei
corridoi così terribilmente asettici. La nave procede, i motori girano al
minimo, e noi tutti insieme solchiamo le acque più inesplorate, immersi quasi
in un dormiveglia febbricitante che ci farà sentire sicuramente diversi al
ritorno, quasi delle altre persone nei primi momenti, fino a quando però dovremo
accorgerci per forza che siamo soltanto rimasti per tutta la notte in un qualsiasi
letto di ospedale.
Bruno
Magnolfi