Costeggio
il muro con calma, come faccio sempre, lungo questo marciapiede, prima di
giungere a casa. Mi fermo, mi guardo attorno, accarezzo le pietre. Sono solo in
questa sera avanzata, lungo la strada un po’ periferica illuminata male da
qualche lampione, eppure riesco quasi a sentire le voci di tutte le persone che
una volta o quell’altra si sono ritrovate a passare di qui. Vorrei quasi che ci
fosse qualcuno con me in questo momento, per condividere con un’altra persona
questa sensazione di vuoto, di disfacimento, di azioni intraprese con la
coscienza che non serviranno mai a nulla, salvo ritrovarsi domani, di nuovo,
come ogni giorno, sulla strada di casa, a bramare il ricongiungersi con le
stanze e con gli oggetti usuali, i gesti consueti, i pensieri di sempre.
Vorrei
quasi che una pietra qualsiasi di questo muro vecchio e senza pretese, si
muovesse improvvisamente sotto al mio tocco: un cedimento verso l’interno,
anche piccolo, che mostrasse un incavo, una nicchia, un’intercapedine dove
qualcuno un giorno ha riposto qualcosa, un talismano, un oggetto qualsiasi, una
presenza di sé. Vorrei che non tutto fosse già così chiaro, evidente, scontato;
che le giornate smettessero di susseguirsi in questa maniera solita e normale,
quasi scambiandosi l’una con l’altra, fino a mostrare la vacuità di interi
periodi inutili e addirittura dannosi, che minano e rendono poco per volta
privo di attese perfino il futuro.
Riprendo
a camminare lentamente accanto al mio muro di selce e malta giallastra,
immaginando la sua compattezza che superi diverse generazioni di esistenze
comuni, ma che verrà abbattuto anche lui prima o dopo, come tutte le cose che
hanno un termine, magari solo per lasciare lo spazio necessario a costruzioni di
vetro e di acciaio, a ringiovanire di colpo tutto questo quartiere. Infine
torno a fermarmi, non so, all’improvviso vorrei starmene qui, accanto al muro,
in silenzio, ma qualcuno arriva da dietro: buonasera signor Bacci, qualcosa non
va?, dice in fretta un mio conoscente che abita in fondo alla strada. Tutto a
posto, rispondo, osservo soltanto le pietre di questo muro solido e vecchio,
così ricche di storia, quasi levigate dal vento e dalle stagioni. Lo so, fa
lui, a volte è necessario soffermarsi anche sulle cose che abbiamo sotto gli
occhi ogni giorno, e poi tira avanti accennando appena un sorriso.
Lo
saluto, il mio vicino di casa, lo guardo mentre mi supera, vorrei quasi
fermarlo, chiedere a lui di stare qui per qualche momento, insieme con me, a
guardare le pietre, a parlare di qualcosa che non so neanche io cosa possa mai
essere, ma poi sorrido con amarezza: non c’è tempo per cose del genere. Vado
avanti, il muro termina dove inizia la fila di abitazioni tutte più o meno
uguali, una a fianco dell’altra. Ecco, anche stasera sono arrivato, penso
ancora.
Alla
fine estraggo la chiave del portone di casa ed entro nella mia abitazione
modesta. Accendo le lampadine, tolgo la giacca, mi muovo con tranquillità in
questi spazi così familiari. Poi torno ad osservare dalla finestra qualcosa che
è rimasto lungo la strada: c’è ancora quel muro di pietre che sembra quasi il
destino di tutti; sento la sua ferma presenza, so che è là, immobile, ma un
giorno di questi sono convinto che riuscirà perfino a parlare, e saprà
confidarmi tutti i segreti che fino adesso da solo non sono ancora riuscito a
scoprire.
Bruno
Magnolfi
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