lunedì 31 marzo 2014

Qualunque serata (piccola commedia n. 2).

            

Scorre lentissimo il tempo certe volte; resto seduta davanti alla televisione, mio marito nella stanza di là sento che muove qualcosa, probabilmente è ancora indaffarato con il suo lavoro, penso. Mi alzo dalla poltrona senza alcuna idea in testa, fuori è scuro, cammino per la stanza e poi, quasi rispondendo ad un automatismo, indosso la mia giacca pesante ed esco di casa, con calma, senza dire niente, e mi allontano da lì senza che forse abbia mai fatto in questo modo una cosa del genere. Non ho uno scopo, cammino lentamente, mi pare quasi che sia sufficiente una boccata d'aria per riprendere lo slancio, ma mentre scorrono i minuti sento che questo non è proprio vero.
Mi accosto ad un bar, dopo aver vagato per diverse strade, tentenno un attimo prima di prendere una qualsiasi decisione, infine entro dentro al locale, alla prima occhiata mi pare poco più di una bettola, ma in fondo penso che questo non abbia alcuna importanza. Mi siedo semplicemente davanti ad una tazza di caffè caldo, un uomo poco distante sembra quasi che mi osservi un po’ troppo. Buonasera, dice infine, io lo lascio avvicinare, lui spiega di chiamarsi in un certo modo, ed io annuisco senza grande interesse. Le serate certe volte sono tristi, dice, specialmente se qua dentro ci trovi sempre le medesime persone. Ma in certi casi spunta una stella e tutto sembra improvvisamente differente.
Lo lascio dire, sono i soliti discorsi, penso. Termino il caffè e poi mi faccio offrire qualche cosa di più forte. Lui dice che potrebbe portarmi in un posto più carino, io sorrido leggermente, lusingata, e poi chiedo a mezza voce se gli vada di passare la notte con me. Certo, dice lui, così chiede quanto gli potrebbe costare la faccenda, ma io faccio spallucce: niente, dico; mi va soltanto di non starmene da sola.
Usciamo dal locale, lui mi apre la macchina, io mi siedo. Mette in moto, appoggia una mano sopra la mia gamba, sorride, sorrido anch’io, senza sapere neppure che cos’altro debba fare. Lui inizia a dire un sacco di sciocchezze sulla sua vita, poi anche su di me, e che si immagina le cose in un modo, e che se le immagina anche in un altro, e che forse inizialmente si era immaginato davvero tutta un’altra cosa. Infine arriviamo, si entra in un portone e poi si sale fino al terzo piano. Quando lui chiude la porta del suo appartamento mi abbraccia, poi mi spoglia, mi tocca, e mi prende lì, in piedi, senza neanche cercare alcuna comodità. Lo lascio fare, in fondo tutto dura poco tempo, meno di quanto mi sarei aspettata, poi gli chiedo del bagno, mi guardo allo specchio, mi lavo, mi sistemo alla meglio, e quando esco gli dico con fermezza che adesso devo proprio andare.
Lui non dice niente, prende le chiavi della sua macchina e mi chiede soltanto se può rivedermi qualche volta. Certo, dico io, ci vediamo al bar, adesso per favore lasciami là davanti. Ci salutiamo, prendo a piedi la strada verso la mia casa: non ho detto niente, penso, non è successo niente, tutto prosegue nella stessa identica maniera. Rientro nel nostro appartamento, mio marito mi guarda stupito mentre abbassa la cornetta del telefono. Ero preoccupato dice: tu, tutto bene? Si, rispondo; è tutto a posto.

Bruno Magnolfi


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