Non credo vivrò molto a lungo. Già da qualche tempo provo dei dolori infidi
in varie parti del corpo, e grazie a quelli non riesco più a dormire dei veri e
propri sonni tranquilli. Anzi, proprio per questo motivo, ormai mi sveglio
sempre molto presto al mattino, ancora prima che si inizino ad avvertire lungo
la strada, pur molto lontani, i rumori delle auto e dei mezzi pubblici. Allora
ascolto il silenzio, rifletto sul da fare, mi rigiro più volte sotto le coperte
di questo grande letto e di questa smisurata camera, e avverto praticamente
dappertutto la mia sostanziale incapacità a riprendere sonno.
Certe volte vado a sedermi prendendo da uno scaffale qualche vecchio libro
di filosofia appartenuto forse a mio padre oppure ai nonni, e così ne leggo
qualche pagina, in fondo non coltivando un vero e proprio interesse per questa
materia, ma solo affidandomi al ritmo e al gusto di quelle parole che trovo
così piene di cultura. È in questo modo che da tempo ho iniziato a pensare alla
morte, quasi assaporando il gusto di questo argomento così dibattuto in quei
volumi.
Infine mi alzo dalla mia vecchia poltrona dello studio, cammino per le
stanze e per le sale, arrivo fino ad una delle finestre del palazzo ad
osservare la prima luce del giorno mentre fuori iniziano i rumori di tutta la
città, giungendo in qualche modo fino a questa mia residenza. Proietto il mio
corpo facilmente oltre la vita insulsa che mi trovo a vivere, e mi sento subito
meglio, so che posso trovare una motivazione, se voglio, a tutte le mie turbolenze,
ai miei malesseri, a questo soffrire quasi di niente, anche se tutto avviene forse
in un elemento sostanzialmente extracorporeo.
Le mie dita picchiettano ritmicamente sul piano del tavolo mentre cerco
dentro di me quella voglia e quell’entusiasmo che sicuramente servono per
iniziare bene la giornata. Alla fine, quando le cose sembrano ormai prendere la
piega giusta, sento quasi di avere esaurito ogni energia, e la mia voglia di
essere e di fare si è ormai scomposta in tante piccole scaglie di una
superficie che agisce sostanzialmente come scudo, quasi avessi soltanto da
difendermi da ciò che mi prospetta l’esistenza.
La servitù che si occupa della mia casa, si muove tra le stanze come
cercando la prosecuzione di ogni abitudine a cui chiunque sia stato qui probabilmente
si è sempre come assuefatto, ed io provo fondamentalmente un dolore vero mentre
osservo ognuno di loro tentare di procrastinare una fine che sembra ormai
scritta e definita, forse persino nel testo più nobile di tutta la biblioteca
di questa abitazione.
Sono l’ultimo, penso; il piccolo tratto finale di qualcosa che si mostrerà
assolutamente irripetibile. Mi guardo attorno, faccio forza su qualcosa che non
so neppure io dove potrà portarmi. Poi, attraversando ancora qualche stanza,
provo un dolore nuovo, una fitta che neppure ricordavo tra tutto l’elenco degli
acciacchi, e se mai l’avessi provata precedentemente. Alla fine mi accascio,
rotolo come un sacco di patate sopra i preziosi tappeti calpestati negli anni
chissà da chi, perdendo ad ogni attimo la consapevolezza persino della mia
dignità. Fortunatamente interviene il cameriere, mi tira su, mi fa sedere per
carità sopra una poltrona da me poco distante, e cerca di riportarmi alla
realtà e forse alla vita. Mi fai schifo, penso però in un attimo di lui, senza
provare alcun ritegno per questa riflessione: sarà la mia morte, immagino
soddisfatto, la chiusura definitiva del tuo ruolo.
Bruno Magnolfi
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