Quando ogni giorno giunge l'ora per uscire dal palazzo
composto da uffici dove lavora come impiegata nel reparto che si occupa del
personale della sua azienda, lei prova sempre un senso di vuoto. Tutti i suoi
colleghi si salutano generalmente con allegria al piano terra mentre strisciano
il proprio cartellino nella fessura prima di andarsene, ma lei prova sempre un
brivido e certe volte vorrebbe quasi abbracciarli tutti, uno per uno, per
chiedere loro di trattenersi ancora, di rimanere almeno un po’ a parlare, o ad
occuparsi di quelle pratiche rimaste
sopra le scrivanie, e di stare nuovamente tutti assieme, insomma, per
affrontare con solidarietà anche solamente le cose usuali di ogni giorno.
Invece la giornata lavorativa, quando poi si ritrova
lungo la strada, cede immediatamente il passo a quella sua solitudine pesante,
a quel suo sentirsi senza identità, lasciandola alla sua perenne incapacità di
vivere per conto proprio, senza nessuno con cui confrontarsi. Non è tanto la
monotonia che la spaventa, quanto il fatto di non avere realmente uno scopo in
comune con gli altri, niente e nessuno di cui prendersi cura, per cui sentirsi
almeno utile.
Si sente stringere il cuore quando sale sull'autobus che la riporta verso il suo
appartamento; gli altri passeggeri le paiono omogenei tra loro, a suo parere hanno
tutti qualcosa di cui occuparsi: salgono, scendono, corrono verso uno scopo, e
poi parlano tra loro, rispondono ai telefoni cellulari abbozzando grandi
sorrisi, perseguendo relazioni sociali, apprezzamenti, piccole oppure enormi probabili
soddisfazioni. Anche a questi qualche volta lei vorrebbe chiedere di tenerla
con loro, di portarla magari chissà dove, da qualche parte qualsiasi, in luoghi
forse dove riuscire a perdere persino la propria identità. Lei in quel caso non
farebbe neppure delle domande, le basterebbe sentirsi completamente unita a
tutti quanti, parte di un meccanismo capace di elaborare apprezzabili piccoli
avvenimenti, mutuare modi di comportarsi utili a far nascere conoscenze, nuova
cultura, magari delle amicizie, forse anche una grande solidarietà per gruppi più
o meno estesi di persone.
Il suo non è minimamente egoismo, anche se pensa ogni
cosa in prima persona; la sua malinconia non è legata ad un personalismo
scontato; è consapevolezza dell’incapacità ad adattarsi in spazi
insignificanti, in situazioni che non hanno sviluppi, senza futuro, che alla
fine non conoscono mai confronti reali. Poi in mezzo a tutti i suoi pensieri rientra
nella sua casa, scivolando lentamente nelle piccole stanze del suo
appartamento: non ha senso così, pensa; la volontà di scrollarsi di dosso quel
segno negativo che a volte le pare quasi un incubo, non riesce a farle fare
purtroppo nessun passo autonomo. Più non vorrebbe, e maggiormente resta
incollata ai soliti orari, ai medesimi comportamenti di sempre, addirittura
agli stessi pensieri, le solite preoccupazioni che maturano dentro di lei, mentre
invece tutto procede da qualche parte in un’altra maniera, probabilmente ad una
velocità di molto superiore alla sua.
Lei ne è cosciente e ne soffre, paralizzata come si sente
in ciò che in fondo è sempre stata, senza apprezzabili variazioni. Morirò un
giorno avvizzita e da sola, immagina mentre prova l'abito da indossare il
giorno seguente per andare al lavoro. Si osserva a lungo dentro lo specchio,
non si piace, comunque si accetta: domani solleverò la sottana, pensa allora con
serietà. Farò vedere a tutti le mia gambe, anche più su, in fondo non ho niente
da perdere; qualcuno sarà pronto a sorridere, oppure addirittura a
scandalizzarsi, ma io per un momento avrò qualcuno che mi considera, e
finalmente ci sarà almeno uno di loro che forse si accorgerà della mia
solitudine, e magari accetterà finalmente di trattenersi dopo il lavoro per
qualche minuto. Non sarà un bel momento, lo so già fin da ora; però sono
convinta di non avere nessuna diversa possibilità.
Bruno Magnolfi
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