Un
uomo, da solo, siede su una panchina di piazza del popolo. Ha un cappello, un
soprabito, calzoni scuri, e forse nessuno lo noterebbe, se non fosse che appare
impacciato nei movimenti in quanto gli manca una mano. Lo guardo, fingo
indifferenza mentre gli passo davanti. Poi torno indietro, con calma; lui mi
osserva, incuriosito dal mio comportamento. Buongiorno, dico; certe volte si
notano certe somiglianze tra due persone che sembra quasi impossibile non
accorgersene. Lui non dice niente, non cambia neppure espressione, si sistema
semplicemente il soprabito con l’unico braccio che ha, quasi a mostrarmi la sua
distinzione, poi volge lo sguardo da un’altra parte.
Mi allontano, attraverso la piazza, passo
davanti al caffè pieno di gente, mi trattengo un momento per indecisione, infine
torno indietro e ripasso dal medesimo marciapiede; lui è ancora lì, mi vede,
dice: guardi, non credo mi possa scambiare per qualcun altro, e mostra con
determinazione la manica vuota. Ha ragione, dico, ma non ha alcuna importanza,
non vorrei importunarla, però mi sembra non ci sia niente di male se le dico
che la sua faccia è come se avesse per me qualcosa di familiare, qualcosa che
mi pare quasi di conoscere da sempre.
Si,
lo capisco, dice lui, a volte succede, non deve credere che non riesca ad
immaginarlo; il fatto è che forse sono proprio io ad essere un po’ prevenuto,
mi sembra sempre che chiunque tenti di avvicinarmi, anche chi semplicemente mi passa
accanto, mostri per me contemporaneamente sia curiosità che ripulsa, quasi
tentasse di ricordarmi la mia menomazione, che ho un braccio solo, insomma,
anche se l’incidente che è accaduto a me, in fondo potrebbe accadere a
chiunque.
Le
posso offrire un caffè?, dico indicando il bar, mentre continuo a sostare
davanti a quell’uomo. Lui si guarda un attimo attorno, con i modi tipici di chi
non si fida, cerca di prendere tempo, forse di inventare una scusa per non
accettare. Grazie, dice poco dopo, ma sarà per un’altra volta, adesso vorrei
soltanto starmene qui, da solo, a pensare ai miei guai. Va bene, gli dico, e
faccio per allontanarmi forse leggermente deluso, ma l’uomo dopo un attimo si
alza e mi chiama: senta, dice, non ce l’ho affatto con lei e neanche col resto
del mondo, è solo che spesso mi sento a disagio, e a volte non riesco a
digerire di dover essere diverso da tutti: mi pare soltanto di sentirmi goffo, e
che la mia menomazione generi a me e agli altri soltanto problemi.
Siamo
tutti esseri goffi, dico senza grande convinzione ma soltanto cercando di
metterlo maggiormente a suo agio; i segni che ci portiamo addosso sono semplicemente
le tracce delle nostre esperienze, gli spiego, e le ferite che abbiamo
acuiscono soltanto la nostra sensibilità, forse rendendoci anche migliori.
Certe volte forse dovremo dimenticarci di noi, lasciarsi andare alle cose che
accadono, ed accettare il confronto con tutti, senza continuamente pensare a
noi stessi. Ma lei sicuramente chissà quante volte già sarà giunto alle medesime
conclusioni.
Certo,
ha ragione, dice l’uomo; ma adesso non posso ugualmente accettare il suo invito
per il caffè: potrei apparirle soltanto privo di personalità, uno che si lascia
convincere in fretta da poche parole, e questo non lo vorrei proprio. Però
posso fare una cosa diversa: posso essere io ad invitarla per offrirle un
caffè, e così, se lei accetta, dimostrerà esattamente ciò che ha appena finito
di dire, e in questa maniera potremo sentirci ambedue su una posizione
maggiormente unitaria.
Bruno
Magnolfi
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