lunedì 3 settembre 2012

Soltanto un sorriso.


         

            Certe volte subisco attimi di ansia profonda, come se mi mancasse qualcosa, un elemento fondamentale della mia stessa esistenza. Davanti a me si era seduta una signorina, ed io avevo subito pensato di chiederle qualcosa, porle una domanda generica, sfoderare un qualsiasi argomento per cercare di farla parlare con me, qualcosa che avesse anche la capacità di rendermi interessante ai suoi occhi, magari, di farmi intavolare un buon discorso con lei. Ma nell’immediato non mi era venuto un bel niente, ed ero soltanto stato in grado di inviare uno stupido sorriso verso la faccia di quella ragazza, proprio ed esclusivamente nell’attimo in cui si era seduta, e poi basta, donandole forse un’espressione di garbo, di piacevolezza, di rilassata tranquillità, ma che forse non era riuscita neppure lontanamente nell’intento per cui era stata proposta.
            E’ soltanto un vecchio maiale, doveva aver pensato sicuramente quella signorina mentre si sistemava sulla sua sedia, ed io in questo modo avevo continuato ad osservare senza interesse la rivista illustrata che mi ritrovavo da un pezzo in mezzo alle mani, mentre dentro di me cercavo ancora qualcosa da dire, qualcosa che mi tirasse fuori da quella situazione così imbarazzante. Il motivo per cui ci trovavamo uno di fronte a quell’altra era evidente ed occasionale, non ci poteva unire alcun argomento di qualche rilievo, ed anche facendo ricorso a tutta la mia immaginazione, ogni ragionamento mi pareva troppo contorto per costruirci sopra anche soltanto una frase. Il tempo era bello, per esempio, ma non era neppure il caso di dirlo. Così, poco dopo, mi ero reso conto di non avere niente da dire, niente per cui intavolare neppure una chiacchiera in quella situazione.
            Nella sala d’attesa dell’ufficio ragioneria, d’altronde, eravamo soltanto io e lei, e quella signorina carina, dalla faccia cortese e simpatica - almeno così mi sembrava – pareva talmente riservata e gentile da mettere chiunque avesse davanti assolutamente a proprio agio, e nonostante questo a me non riusciva proprio di dirle qualcosa, neppure una cosa qualsiasi, e più trascorrevano i minuti e più sentivo allontanarsi da me qualsiasi ulteriore possibilità. Pensavo ad un tratto fosse addirittura mio dovere specifico cercare di farla parlare, scambiare con lei magari qualche notizia generica, ed ascoltare infine come estasiato il timbro della sua voce. Ma un teso silenzio regnava nella saletta, e pareva proprio che niente potesse cambiarne lo stato.
            Poi una persona era uscita dall’unica porta che si apriva nella sala d’attesa, oltre quella di entrata, e un impiegato, subito dopo, si era soffermato sulla soglia a guardare noi due, io e la signorina; poi però era rientrato, spiegando: solo un momento. La signorina mi aveva guardato con l’espressione di chi sta per dire a sua volta qualcosa, ma infine non si era lasciata andare neppure ad aprire la bocca, ed io in quell’attimo breve, forse per un gesto eloquente di incoraggiamento, avevo ripreso a sorriderle, immediatamente vergognandomi della mia incapacità di dirle a mia volta qualcosa, anche soltanto un ritardatario buongiorno.
            Per rompere quell’imbarazzo allora mi ero alzato dalla poltroncina di plastica in cui ero rimasto seduto fino ad allora, avevo appoggiato sul tavolinetto da fumo la rivista che avevo rigirato a sufficienza nelle mie mani, e dandomi coraggio avevo spiegato: tocca a me, se non le dispiace. La signorina mi aveva allora osservato con aria grave, come avessi detto qualcosa che fosse del tutto fuori di luogo, ed io avevo provato forte quel senso di ansia che proseguivo a sentire da quando lei era entrata in quella saletta. Così mi ero voltato verso la finestra, avevo finto di cercare qualcosa dentro a una tasca, avevo mosso due o tre passi senza sapere in che punto mettermi, ma alla fine mi ero sentito deciso: scusi, avevo detto, mostrando il sorriso di cui dovevo apparire un grande campione; e con ciò ero uscito, guadagnando velocemente il piccolo corridoio e infine il portone che immetteva alla strada.

            Bruno Magnolfi

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