Certe
volte subisco attimi di ansia profonda, come se mi mancasse qualcosa, un
elemento fondamentale della mia stessa esistenza. Davanti a me si era seduta
una signorina, ed io avevo subito pensato di chiederle qualcosa, porle una
domanda generica, sfoderare un qualsiasi argomento per cercare di farla parlare
con me, qualcosa che avesse anche la capacità di rendermi interessante ai suoi
occhi, magari, di farmi intavolare un buon discorso con lei. Ma nell’immediato
non mi era venuto un bel niente, ed ero soltanto stato in grado di inviare uno
stupido sorriso verso la faccia di quella ragazza, proprio ed esclusivamente nell’attimo
in cui si era seduta, e poi basta, donandole forse un’espressione di garbo, di
piacevolezza, di rilassata tranquillità, ma che forse non era riuscita neppure lontanamente
nell’intento per cui era stata proposta.
E’
soltanto un vecchio maiale, doveva aver pensato sicuramente quella signorina
mentre si sistemava sulla sua sedia, ed io in questo modo avevo continuato ad
osservare senza interesse la rivista illustrata che mi ritrovavo da un pezzo in
mezzo alle mani, mentre dentro di me cercavo ancora qualcosa da dire, qualcosa
che mi tirasse fuori da quella situazione così imbarazzante. Il motivo per cui
ci trovavamo uno di fronte a quell’altra era evidente ed occasionale, non ci poteva
unire alcun argomento di qualche rilievo, ed anche facendo ricorso a tutta la
mia immaginazione, ogni ragionamento mi pareva troppo contorto per costruirci sopra
anche soltanto una frase. Il tempo era bello, per esempio, ma non era neppure
il caso di dirlo. Così, poco dopo, mi ero reso conto di non avere niente da
dire, niente per cui intavolare neppure una chiacchiera in quella situazione.
Nella
sala d’attesa dell’ufficio ragioneria, d’altronde, eravamo soltanto io e lei, e
quella signorina carina, dalla faccia cortese e simpatica - almeno così mi
sembrava – pareva talmente riservata e gentile da mettere chiunque avesse
davanti assolutamente a proprio agio, e nonostante questo a me non riusciva proprio
di dirle qualcosa, neppure una cosa qualsiasi, e più trascorrevano i minuti e
più sentivo allontanarsi da me qualsiasi ulteriore possibilità. Pensavo ad un
tratto fosse addirittura mio dovere specifico cercare di farla parlare,
scambiare con lei magari qualche notizia generica, ed ascoltare infine come
estasiato il timbro della sua voce. Ma un teso silenzio regnava nella saletta,
e pareva proprio che niente potesse cambiarne lo stato.
Poi
una persona era uscita dall’unica porta che si apriva nella sala d’attesa, oltre
quella di entrata, e un impiegato, subito dopo, si era soffermato sulla soglia
a guardare noi due, io e la signorina; poi però era rientrato, spiegando: solo
un momento. La signorina mi aveva guardato con l’espressione di chi sta per
dire a sua volta qualcosa, ma infine non si era lasciata andare neppure ad
aprire la bocca, ed io in quell’attimo breve, forse per un gesto eloquente di
incoraggiamento, avevo ripreso a sorriderle, immediatamente vergognandomi della
mia incapacità di dirle a mia volta qualcosa, anche soltanto un ritardatario
buongiorno.
Per
rompere quell’imbarazzo allora mi ero alzato dalla poltroncina di plastica in
cui ero rimasto seduto fino ad allora, avevo appoggiato sul tavolinetto da fumo
la rivista che avevo rigirato a sufficienza nelle mie mani, e dandomi coraggio
avevo spiegato: tocca a me, se non le dispiace. La signorina mi aveva allora
osservato con aria grave, come avessi detto qualcosa che fosse del tutto fuori
di luogo, ed io avevo provato forte quel senso di ansia che proseguivo a
sentire da quando lei era entrata in quella saletta. Così mi ero voltato verso
la finestra, avevo finto di cercare qualcosa dentro a una tasca, avevo mosso
due o tre passi senza sapere in che punto mettermi, ma alla fine mi ero sentito
deciso: scusi, avevo detto, mostrando il sorriso di cui dovevo apparire un
grande campione; e con ciò ero uscito, guadagnando velocemente il piccolo
corridoio e infine il portone che immetteva alla strada.
Bruno
Magnolfi
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