Riuscendo
ancora a conservare alcuni amici fedeli che mi fanno sapere di tanto in tanto
le cose che mi riguardano, so per certo che ci sono degli individui che
continuano a cercarmi al mio vecchio domicilio, presumibilmente per propormi,
non potrebbe essere altrimenti, qualche nuovo contratto, o al massimo per
prendere delle semplici informazioni sulla mia recente attività di autore e
scrittore. Naturalmente nessuno di loro sospetta che io sia riuscito a ultimare
soltanto un piccolo volume, la cui pubblicazione ha avuto, questo è vero, un
certo successo, e che dopo quello, mi sia deciso a non fare nient’altro, e che,
terminata quell’esperienza, io abbia smesso del tutto di scrivere.
Ho
sempre sentito dentro di me la determinazione ad andarmene via, fin da ragazzo,
andarmene da qualsiasi luogo o città in cui mi trovassi: è qualcosa che fa
parte della mia natura, in pratica, un sentirmi permanentemente a disagio dopo
essere stato per un po’ in un medesimo posto. Perfino cambiarmi di nome fa
parte di questo tipo di fuga da tutto, anche se, certo, per evidenti ragioni,
dopo qualche tempo si viene facilmente a sapere verso dove abbia cercato di
dirigermi e in quale maniera, e soprattutto sotto che nome mi stia nascondendo.
Ma a me non interessa per niente ciò che tutti possono pensare dei miei comportamenti:
sono cose mie, rifletto, semplici forme di esistenza che forse non ricevono
apprezzamenti dagli altri, ma che alla fine fanno parte soltanto della mia
sfera privata.
Così
certi miei amici mi dicono che in tanti sarebbero pronti ad offrirmi dei soldi
e delle condizioni di estremo vantaggio, sotto tutti gli aspetti, se soltanto
io tornassi indietro rispetto alle mie decisioni, magari riprendendo ad abitare
la mia vecchia casa, ma soprattutto ricominciando a scrivere un libro;
sostengono questi che sarebbe un successo sicuro, basterebbe soltanto facessi
avere, a qualche professionista dell’editoria, l’incipit di un nuovo romanzo, o
almeno a grandi linee del progetto di questo, oppure di un racconto pur breve,
ma esaustivo della mia voglia di scrivere.
Ma a me non interessa: ciò che
avevo da dire e da scrivere l’ho fatto, e si può trovare e leggere ancora;
andare avanti in quella maniera per me non è proprio il caso: non ho mai avuto
la stoffa della scrittore, dico sempre a chiunque mi interroghi su questo
argomento, figuriamoci dover affrontare delle serate costruite di proposito per
promuovere qualche nuova edizione, o dover partecipare, in qualche libreria
sparsa in chissà quale città, ad assurdi dibattiti sul lato oscuro del
protagonista del mio nuovo romanzo, e rispondere alle domande del pubblico
soltanto per invogliarlo a comprare qualche copia del libro. No, non fa per me;
anzi, mi diverto addirittura a pensare qualcosa del genere, adesso che mi
sembra un’assurdità, un qualcosa che non sta più in nessun modo nelle mie
corde, come spesso si dice oggigiorno.
Rimango solitario in questo
paesino dove non mi conosce nessuno, e dove, nella bottega dei generi
alimentari, si rivolgono a me in questo modo: buongiorno dottore; proprio a me
che appena è riuscito di diplomarmi; ma lo fanno con semplicità, come
probabilmente direbbero per rispetto a qualsiasi forestiero fosse arrivato fin
qui. Non mi chiedono niente, nessuno di loro, però mi guardano, curiosi,
osservano con attenzione le espressioni che assumo col viso e con le mani,
perché a loro basta, sanno perfettamente che ad uno che viene da fuori e che ha
una faccia come la mia, è naturale non chiedergli niente: ha sicuramente un
passato alle spalle, ma è qualcosa di cui non vale la pena neanche parlare,
pensano tutti; come d’altra parte tutti noi ne abbiamo uno, è normale, pensano
ancora; e non ci vorrà neppure troppo tempo affinché, anche senza averci detto
chi sia veramente, questo straniero diventi, con semplicità e con una grande
naturalezza, proprio uno di noi.
Bruno Magnolfi
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