In questo letto d’ospedale rimango sotto le
coperte, avendo cura di tenerle ben tirate fin sopra al mio viso, nascondendomi
così alla vista degli altri. Annuso il mio odore qua sotto, lo trovo familiare,
caldo, umido di un leggero sudore, rassicurante: forse proprio per questo so di
essere vivo. Anche i dolori che provo sono stabili, starmene qui fermo mi porta
a sopportarli meglio, neutralizzandone quasi la forza dirompente.
Oltre le vetrate della stanza la città si muove
come sempre, le cose procedono, tutti hanno qualcosa di cui occuparsi, e da
qualche parte in un ufficio del tutto anonimo, lei in questo momento probabilmente
rimane seduta alla sua scrivania, e forse risponde al telefono. Se ci penso la
vedo, le sue mani prendono appunti, si muove sulla sua sedia, si impegna come
sempre nel suo lavoro.
Cancello tutto, mi giro nel letto, qualcuno nella
stanza sta parlando di miglioramenti, ma non si riferisce al mio caso. Forse
dovrei pensare qualcosa di positivo, tirarmi su di morale, ma il punto
fondamentale è che quando riesco ad allontanarmi da questo corpo sto bene,
anche qui, solo, in questo giaciglio che risulta così estraneo ai miei
pensieri, alla mia vita, a tutto di me.
Arriva un infermiere, mi chiede qualcosa, si è
accorto che non è venuto nessuno a trovarmi, non ho scambiato neppure una
parola con i miei vicini di letto. Lo guardo, sorrido, gli spiego che sto
migliorando, lo sento, ne sono sicuro. Quello mi dice che deve farmi un
prelievo, si accomodi dico, sono a sua completa disposizione. Che cosa importa,
penso, una cosa o quell’altra: sono abbandonato a ciò che deve succedere,
lascio che ogni trattamento previsto abbia il suo corso, non trovo nessun
motivo per preoccuparmi, il procedimento avrà un seguito, sono assolutamente
disposto a lasciare che tutto avvenga, senza anteporre alcuna perplessità.
Provo piacere nella preoccupazione dell’infermiere
per me; ma poi se ne va, ritorno ai miei pensieri, ma anche quelli hanno perso
di lucidità, mi sento confuso, non so più neppure su cosa riflettere. Un
ammalato della mia stanza si è alzato dal letto, ha ciabattato con lentezza,
poi è uscito nel corridoio. Lo osservo per un attimo, lui guarda me, ci
tolleriamo a vicenda, penso, magari più tardi se riuscirò a trovare tra le mie
cose un briciolo di spirito, gli chiederò qualcosa di sé.
Vedo passare ancora l’infermiere, non dice niente,
neppure si avvicina, ha capito il tipo di soggetto che sono, verrà da me
soltanto quando sarà sicuro che ho ormai raggiunto la soglia della
sopportazione. Torno a girarmi e a concentrare i pensieri sulla città fuori dai
vetri, ma sembra che adesso quella realtà non riesca ad ispirare niente alla
mia immaginazione, così rimango stordito senza alcun materiale su cui far
girare la mente. Non so di che cosa possa avere bisogno, tra qualche momento
suonerò il campanello per le urgenze, anche se poi non saprò cosa chiedere.
Torno a girarmi, con il lenzuolo sul naso che
lascia appena uno spiraglio per gli occhi, guardo la porta spalancata ed il
corridoio dove passa qualcuno, ogni tanto. Forse vorrei che uno di loro
chiudesse la porta, che non giungessero le chiacchiere sottovoce di dottori e
infermieri. Mi concentro per fare in modo che una qualche forza trascendentale
arrivi ad aiutarmi, tra poco è l’ora del passo, e penso che non resisterò a
sentire i parenti degli altri che giungono in visita. Poi arrivi tu, e tutto d’improvviso
appare completamente diverso.
Bruno Magnolfi
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