Spesso
vengo a rinchiudermi in questo stanzino dimenticato. Gli altri impiegati del
palazzo vagano per i corridoi, spesso si incontrano tra loro e scambiano delle
battute, così quasi sempre li trovi davanti alle macchinette del caffè
posizionate ad ogni piano, a raccontarsi le loro sciocchezze di sempre, e anche
a parlare dell’assurdità di essere costretti a passare l’intera mattinata
prigionieri di un luogo proprio come questo, dove il lavoro fortunatamente è
sempre l’ultima delle preoccupazioni di tutti. Lentamente, e senza provocare
rumori, chiudo a chiave la porta quando sono già dentro, ed accendo questa
lampadina fioca, in mancanza della finestra, rimanendo qui, con gli occhi mezzo
chiusi, fermo, a riflettere su quanto continua a passarmi attraverso la mente.
Sulla
mia scrivania dell’ufficio ci sono rimaste anche oggi una decina di cartelle:
posso mettere la firma di assenso ad ognuna in appena dieci minuti, e levarmi
di torno una volta per tutte qualsiasi preoccupazione; ma questo è il lavoro di
tutta la settimana, perciò devo parcellizzarlo, lasciare che decanti con calma,
e che mostri ai miei superiori quanto sia difficile prendere delle vere
decisioni. Certe volte sento i colleghi che parlano fuori da questa porta,
mentre camminano lungo il corridoio, ma a nessuno di loro verrebbe mai in mente
di cercarmi qua dentro. Generalmente rimango qua seduto per almeno un’oretta, a
volte anche di più, ma che cosa importa, a me piace stare da solo, recuperare
una dimensione in cui il lavoro si mantenga distante, almeno come ingrediente
di una giornata come la mia, così monotona e indissolubile.
In
certi casi, una volta terminato il mio orario di lavoro, ho pensato che mi
sarebbe piaciuto persino rientrare di nascosto dentro al palazzo, salire le
scale fino al mio piano, e rinchiudermi di nuovo qua dentro. Ci sto bene,
questo è il punto, anche se non ho fatto proprio niente per personalizzare
questo luogo dimenticato da tutti. Non ne ho mai parlato con nessuno, ma fin da
quando striscio il cartellino all’inizio del turno, non riesco oramai a pensare
ad altro. Devo stare attento, è evidente, non posso assolutamente correre il
rischio che qualcuno si accorga del mio rifugio. Ma so prendere ogni volta le
mie dovute precauzioni. Quando esco, lascio sempre che mi cada qualche carta di
mano, per mostrare a chi mi vede che sono impegnato in qualcosa, anche se in
fondo a nessuno interessa, ed anche per evidenziare che quella porta che chiudo
alle mie spalle nasconde come una tappa importante della mia giornata
lavorativa.
Stamani,
come sempre, entro alla svelta là dentro, nel mio stanzino personale, e trovo
subito qualcosa che non sta esattamente dove ricordavo che fosse. Mi guardo
attorno, perlustro tutti gli oggetti presenti, ed un vago sentore di disagio mi
prende la mente. Qualcuno ha scovato il mio rifugio, rifletto, e già solo il
fatto di non essere più l'unico ad entrare in questo luogo mi provoca un'ansia
notevole. Così mi trattengo là dentro anche più a lungo, e cerco di mettere in
atto qualche strategia di sicurezza. Posiziono alcuni oggetti in modo da
rendermi conto perfettamente se qualcuno sta usando al posto mio questo
stanzino, ed alla fine stremato dall’agitazione mi decido ad uscire. Faccio
appena dieci cauti passi nel corridoio, volto l'angolo, e subito un dubbio
pregnante mi prende. Così torno indietro, ed appena in tempo riesco a vedere la
porta del mio stanzino che si sta richiudendo. Qualcuno è entrato, non c'è
alcun dubbio, attendeva proprio che io me ne andassi: è stato violato il
segreto. In preda ad un capogiro mi trascino fino alla scrivania e quindi mi
siedo. Dovrò prendere un lungo periodo di malattia, rifletto, non posso certo
continuare così. Ed in seguito tutto sarà da ricostruire: chissà se in questo
palazzo esiste un luogo simile al mio rifugio, penso; dovrò cercarlo, decido, fare
dei tentativi, prendere informazioni, anche se forse l’equilibrio che ero
riuscito ad ottenere in tutto questo tempo, ormai sarà perduto per sempre.
Bruno
Magnolfi