Oltre
lo schermo di questi miei poveri occhi, semplicemente protetti ma anche
esaltati dalle lenti di vetro che porto sul naso, comprendo ogni giorno che c’è
soltanto molta diffusa abitudine in ogni comportamento di tutti, dice Natan.
Osservo i modi di fare di parecchie persone che conosco da tempo, magari mentre
salutano gli altri, o quando passano davanti a questo piccolo negozio dove lavoro
da sempre; e mi rendo conto ogni volta di quanto tutto l’insieme di queste piccole
cose che compongono la mia giornata, sia dettato alla fine soltanto da elementi
senza molta importanza, certe volte addirittura dallo stesso semplice sentire
di ogni cliente che passa da qui, come se la sensazione di un individuo opportunamente
immerso in un ambito, fosse il suo stesso recinto, la sua piccola oasi, spesso neanche
riconoscendo lui stesso, persino in piena onestà, il proprio mostrare in questo
modo l’appartenenza ad un gruppo.
Guardo
fuori dalla vetrina dei miei libri antichi, spiega Natan con calma a questo
cliente. Ma non c’è nulla che riesca a trascinarmi oltre l’immagine che tento
di assumere, sotto l’insegna indiscutibilmente in ebraico che mi sormonta.
Entrano i soliti clienti, spesso mi dicono cose che conosco oramai alla
perfezione, e che comunque mettono velocemente in sintonia le nostre conoscenze
reciproche. Si sorride, si fanno cenni di assenso, poi ognuno di loro in piena
libertà acquista qualcosa per la sacrosanta voglia di sentirsi più unito ai
suoi simili, sullo stesso versante, fratelli anche oltre qualsiasi possibile supposizione.
Il
cliente resta freddo, non ha voglia neanche di annuire alle affermazioni del
negoziante. Prosegue, pur ascoltando con attenzione, a prendere in mano i
vecchi volumi ed a saggiarne la carta, l’integrità, la consistenza; alla fine farà
un buon acquisto, pensa Natan, che ormai sa riconoscere a prima vista il
personaggio giusto per la sua bottega di antiquariato della cultura. L’altro
prende tempo, dice ad un tratto che i tempi sono molto diversi da quelli di una
volta. Non c’è alcuna possibilità di sentirsi vicini, oramai, se non questo
vecchio sentore di polvere, di carta ingiallita, di antico trascorso tra le
mani di qualcuno a noi simile.
Natan allora
gira su se stesso, fin oltre il suo vecchio scrittoio che funge da bancone di
vendita, aspira l'aria quasi per incoraggiare il cliente, ma questi sembra come
allontanarsi improvvisamente da quei libri, come desiderasse soltanto
trattenersi in quell'ambito appena per qualche minuto, giusto per concludere la
chiacchierata, e poi basta. Chissà se è stato giusto parlare proprio con questo
cliente delle mie sensazioni, pensa lui con rassegnazione. Non ha alcuna
importanza, riflette ancora Natan: va tutto bene se riesco ancora a comprendere
quanto qualcuno sia capace di stare all'altezza di tutto questo. Che poi riesca
a fargli fare un acquisto, è già un elemento superiore, e non sempre le cose
vanno proprio per il verso che si desidera. Il cliente infine lo guarda, chiede
di avere ancora tra le mani quel volume prezioso che ha osservato maggiormente,
più di ogni altro. Decide l'acquisto, anche se il prezzo gli pare eccessivo, così
tergiversa, prende ancora del tempo, chiede un pagamento da effettuare in più
volte. Natan sorride, a questo punto, annuendo a tutte le richieste che vengono
fatte: non c'è proprio niente di differente con tutti gli altri, pensa risoluto
alla fine; siamo simili, inutile stare a negarlo.
Bruno Magnolfi
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