lunedì 21 novembre 2016

Potere inconsulto.

            
            Si, sto bene, dico subito a qualcuno che mi ha visto cadere così in malo modo. Mi aiutano, mi tirano su, io bofonchio qualcosa e poi mi riaggiusto la giubba sopra le spalle, dolorante ma quasi pronto persino ad affrontare qualche altro gradino scivoloso. Lentamente ma con orgoglio mi riavvio, e dopo un altro piccolo tratto di strada, entro senza indugi nel palazzo degli uffici dove mi dovevo recare stamani. Forse qualcuno tra quelli presenti alla mia caduta mi ha seguito fin qui, penso; forse vorranno chiedermi ancora se tutto vada bene davvero. Con determinazione, dal grande ingresso pieno di gente, vado risoluto a girare la maniglia di una porta qualsiasi, lungo il primo corridoio che incontro, ed entro dentro, come sapessi già perfettamente dove recarmi, ed in modo da eludere qualsiasi tentativo di coloro che sicuramente insistono ad inseguirmi.
            Una donna dietro la sua scrivania alza gli occhi dalle carte che ha di fronte, e mi chiede subito gentilmente che cosa desideri. Le faccio presente con accuratezza la mia situazione attuale, le relaziono i dettagli della mia caduta, le spiego la posizione assunta da alcuni curiosi, e tutto il resto che mentre parlo mi torna pronto alla mente, non dimenticandomi naturalmente di mostrarle un certo gonfiore sopra un ginocchio, risultato evidente della gran botta, ma lei sorride, come stessi dicendo quasi qualcosa di divertente. La guardo con una certa sorpresa, l’impiegata subito mi dice che proprio non può essermi utile, e che adesso per farle un favore dovrei proprio uscire da quell’ufficio. Assecondo perplesso la sua richiesta, ma quando apro la porta mi accorgo, anche se non riesco a riconoscere quegli individui tra gli altri, che c’è qualcuno che mi sta aspettando, come se in certi ambienti si volesse ancora sapere i dettagli del mio stato, e magari anche d’altro.
            Spiego alla donna che non posso uscire dalla sua stanza, devo obbligatoriamente restare confinato là dentro, e già che ci siamo le chiedo se può anche aiutarmi con le pratiche che devo mettere a posto. L’impiegata si alza dalla sua scrivania, mi si accosta con un’espressione incerta, osserva i miei incartamenti e infine, spingendomi leggermente ma quasi restando dietro di me, apre la porta e si guarda subito attorno, lungo quel corridoio che sto cercando di evitare. Venga con me, mi dice, l’accompagno io allo sportello dove potrà risolvere questi suoi problemi: se sta al mio fianco, nessuno le potrà dire niente. La seguo, mi fido, anche se a dire la verità avrei preferito restare almeno qualche altro minuto nella sua stanza, seduto da una parte magari, senza preoccupazioni, in un luogo così sicuro come sembra quello, assolutamente protetto.
Lei cammina veloce, io arranco cercando di starle attaccato. Lei infine si ferma, parla con qualcuno, indica qualcosa da una parte e dall'altra, lasciandomi infine comprendere, senza volerlo, che mi sta consegnando direttamente ai miei inseguitori. Perciò mi volto, noto quattro o cinque persone che vengono verso di me, mi sposto rapido da una parte, mi piego ad evitare di essere riconosciuto, ma il mio ginocchio non tiene, provo una fitta di dolore e così vado a terra. La donna ride con un’espressione da dura, mi indica come un individuo di cui farne oggetto di scherno, io sono confuso, vorrei fuggire in fretta da lì, ma lo ritengo impossibile, così resto immobile ad aspettare gli eventi. Qualcuno mi fa un’iniezione, mi portano via con una barella, mi ritrovo disteso nel letto ordinario di un vecchio ospedale, senza neppure sapere perché.

Bruno Magnolfi 


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