Senza mai
preoccuparmi di niente, giro a caso per strada, quasi sempre nei dintorni della
stazione degli autobus. Mi piace la gente in partenza, poi qua ci sono le
pensiline, le vetture, i larghi marciapiedi disseminati di comode panche, ed
io, adesso che è buio, immagino come per tutto il pomeriggio decine di persone
siano transitate da queste parti, magari tutti di fretta, orologio alla mano,
cercando la propria corriera con il biglietto bene in vista o dentro una tasca.
Qualcuno magari ha perso per un soffio la sua coincidenza, altri si sono
dimenticati qualcosa, l’intero bagaglio forse, appoggiato per un attimo a
terra, mentre la testa era persa dietro altre cose. Ormai è tardi, a quest’ora
poche macchine passano ancora da qui, e solo quelle a lunga percorrenza; si
fermano con tutte le luci sguainate davanti, sotto questa tettoia, giusto per
qualche minuto, e i passeggeri naturalmente sorridono, rassicurati da quella
presenza, poi salgono su, parlano tra loro, occupano subito il posto migliore,
infine si mettono comodi e rimangono fermi, tranquilli.
Vorrei tagliare la
strada ad una di queste corriere, farle scoppiare una gomma proprio mentre sta
arrancando sulla salita che porta ad un paese qua attorno; oppure mettermi in
mezzo, nel buio più profondo, fuoriuscito da un bosco del margine, per gridare
all’autista che adesso deve fermarsi, deve lasciare almeno un momento che il
motore respiri, e che tutti quanti all’interno si chiedano l’un l’altro il
motivo di quella frenata, di questa sosta imprevista. Allora mi farei aprire la
porta, mostrerei a tutti dei modi decisi, e infine salirei a bordo conservando con
me, nonostante ogni apparenza, tutta la calma possibile; poi però mi farei
sotto con il guidatore per mostrargli il mio ferro già bene in vista. Che
possiamo fare, direbbero tutti, cosa mai significa questa faccenda, ma io direi
con parole gentili a quell’autista, ma anche agli altri, di ingranare di nuovo
la marcia, perché adesso dobbiamo andarcene assieme, navigare verso un luogo
invitante, magari un posto bellissimo, un luogo che già avevo in mente da un
pezzo, che sognavo ogni notte da tantissimo tempo.
Un viaggio
imprevisto, certamente, una trasferta verso qualche luogo lontano e inaspettato,
dove si possa tirare un respiro con calma, dove forse vivono degli abitanti
cordiali, e le case e le strade sono pulite, perché una certa tolleranza è
diffusa persino nei confronti di gente identica a me. Probabilmente lascerei i
passeggeri e l'autista, col loro mezzo vetrato, proprio all’imbocco di questo
paese così piacevole, ma saluterei tutti, naturalmente, sorridendo a ciascuno
di loro, e poi me ne andrei rasserenato per conto mio, a familiarizzare con
questo bel luogo. Non c’è niente di male, penso; ho fatto fare a tutti una bel
giro, ho regalato loro un imprevisto piacevole, una leggera paura subito
sciolta, visto che poi alla fine, per questi viaggiatori, è ripreso tutto quanto
come è sempre stato. Vorrei forse trattenere dentro di me qualcosa di questi
casuali compagni di viaggio, del loro sentirsi così normali, ordinari, pronti
ad essere ogni volta i medesimi, i soliti monotoni personaggi di questa divertente
minuta commedia.
Uno di questi però lo
chiamerei col suo nome: amico, potrei dirgli, và pure avanti ancora per la tua
strada, e fai pure le tue cose da ora in avanti come se fossero un po’ anche le
mie. Ti sento vicino, è evidente, perché viaggiare rimane sempre la cosa più
bella del mondo, e forse anche la più solidale, anche nel caso ci si trovi a
percorrere sempre gli stessi tragitti. Anche io voglio fermarmi, prima o dopo, gli
direi ancora, perché anche io provo in fondo a me stesso questa necessità; ed ho
bisogno di un posto che in questo momento non so neppure dove si trovi, ma il
cui nome completo però è indubbiamente quello di casa.
Bruno Magnolfi
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