Il
parrucchiere Marcello è gentile, dice Armando alla mamma; anche se la sua gentilezza
in tutti questi anni da quando vado in quel suo negozio, a me non è mai rimasta
troppo simpatica. Spesso lui regala intorno a sé battute di spirito,
normalmente cose abbastanza scontate, a cui tutti i clienti del suo esercizio
sembrano ridere quasi forzatamente, proprio per fargli piacere e nient’altro; e
poi parla di continuo, non si ferma quasi mai, anche quando io e tutti gli altri proviamo forte il desiderio di starcene
un po’ più tranquilli, mentre come al solito ci ritroviamo purtroppo seduti con
le nostre cose da leggere su quei sui scomodi e ordinari divanetti, ad
aspettare pazientemente il nostro turno per tagliare i capelli o la barba.
Vedi
mamma, dice lui: a me già non piace il pensiero di quando Marcello inforca le
forbici ed inizia a tagliarmi le ciocche; per questo sto per tutto il tempo in
tensione: una parte di me, bene o male, se ne andrà a cadere per terra, continuo
a riflettere, ed in seguito verrà spazzata via senza mezze misure dalla scopa
di quell’aiutante di bottega, quel ragazzetto che ridendo come un ebete
affronta qualunque cosa in maniera sbagliata e svogliata, senza metterci
impegno. Devo, questo il punto, perché non posso lasciare che i miei capelli
crescendo si riversino ancora quasi sopra le spalle, come già qualche volta è
accaduto. Ma fosse per me, lo dico sul serio, lascerei che fosse soltanto la
natura ad imporre la loro definitiva lunghezza. In ogni caso la giornata da me
scelta per andare da Marcello è sempre una giornata oltremodo triste, un
passaggio praticamente obbligato, e so perfettamente mentre percorro il tratto
di strada che mi porta da lui, che non sarò affatto contento quando rifarò lo
stesso percorso al contrario, qualsiasi possa essere il tipo di taglio che
viene deciso.
Sto lì, quasi con rassegnazione,
mamma, spiega Armando, e aspetto che le cose si compiano; e poi tocca a me, e
Marcello ancora continua a parlare quasi non facesse differenza tra un cliente
ed un altro. È tardi, dopo il mio turno è rimasto soltanto un anziano che pare stia
lì con indifferenza, tenendo lo sguardo perso chissà verso dove, come non
avesse, beato lui, alcuna preoccupazione. Io penso, dice ancora, che sarebbe
bello per me potermi addormentare su questa poltrona girevole, proprio davanti
allo specchio, e svegliarmi soltanto quando tutto sarà sostanzialmente finito.
Ma lui invece fa: è un pezzo che non ci vediamo, mentre mi pettina la
frangetta. Facciamo un taglio come quelli soliti?, mi chiede mentre già inizia
a sforbiciare qualcosa. Annuisco, cerco il più possibile di stare rilassato,
non vorrei mai dovergli spiegare qualcosa peraltro piuttosto difficile da dire,
e in ogni caso mi sento ancora più nervoso, tanto da immobilizzarmi su questo
sedile, pronto comunque a lasciarmi fare quello che a questo punto forse
nessuno potrebbe limitare a quelle sue mani.
Naturalmente oggi, ad un tratto,
senza che niente di particolare lo avesse annunciato, mi ha chiesto di te, sai
mamma, dice ancora Armando; come fosse una domanda qualsiasi, la sfumatura di
un argomento normale tra tutti quelli che affronta Marcello durante la sua
intensa giornata di lavoro. Così mi sono paralizzato, come ogni volta succede,
ed ho soltanto detto qualcosa senza alcuna importanza, nell’attesa che anche
quel tema passasse. Lui ha continuato a tagliare, ha sforbiciato davanti e di
dietro senza alcuna preoccupazione, piegandosi sulle ginocchia come fosse un
artista di calibro. Poi ha tolto il telo, mi ha spazzolato fin sulle spalle, ha
detto che aveva finito, ed io gli ho dato i suoi soldi, senza neppure
guardarlo, fino a quando mi sono trovato con la mano sulla maniglia; e prima
che lui mi dicesse come al solito di salutarti, l’ho prevenuto: ciao Marcello,
gli ho detto duro, pensando intensamente che non sarei mai più tornato là
dentro, in nessun caso. E lui stavolta, con ogni probabilità, ha compreso
perfettamente.
Bruno Magnolfi
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