Non è facile dormire ogni notte in questa carrozza abbandonata, in mezzo al
vecchio scalo merci della stazione ferroviaria. Tutti vorrebbero poter
usufruire di un posto proprio come questo, così devo stare sempre attento a non
essere notato, e chiudere con cura ogni sportello dietro di me con la chiave
triangolare. Si sentono i treni fischiare poco lontano, ci sono scambi e binari
dappertutto, perché è qui dove compongono i convogli, ma si fa presto
l'abitudine a tutto; il freddo di questo inverno invece è qualcosa a cui non si
ci abitua, e ti attanaglia da vicino, nonostante tutte le coperte che sono
riuscito a rimediare. Un giorno o l'altro mi manderanno via da questa cuccia,
ne sono sicuro, ma sono disposto a fare un polverone in quel caso, in modo che
per qualche via gli amministratori mi assegnino subito un posto in un alloggio.
A me piace stare qui, mi sento bene nonostante tutto. Vorrei avere anche
qualcuno insieme a me, con cui parlare qualche volta, e condividere tutte le
cose che mi trovo ad affrontare, ma non posso rischiare d’essere tradito.
Utilizzo un percorso tra i binari, quando inizia a fare buio, per non far
vedere a qualche curioso che vengo proprio qui, anche se sono certo, nonostante
i miei stratagemmi, che mi seguiranno un giorno o l’altro, e chissà poi cosa
potrà succedere. Quando vado alla mensa, gli altri mi chiedono spesso dove io
stenda le mie vecchie ossa quando viene la sera, ma sono sempre riuscito ad
essere evasivo, e a non spifferare mai neanche un indizio.
Durante il giorno me ne sto con gli altri, ci sistemiamo in un angolo fuori
della mensa, i soliti tre o quattro, e anche se si parla poco stiamo lì, ad
immaginare che tutto quanto stia improvvisamente per finire, e che tutto cambi in
meglio anche per noi. Qualcuno se la prende con la disorganizzazione, altri con
il disinteresse, ma la maggior parte accetta il proprio stato, senza stare a
lamentarsene, forse perché sa bene che non serve proprio a nulla. Inutile
raccontare a qualcun altro la propria storia, e magari dimostrare che è stata
una serie di combinazioni sfortunate a ridurci in questo stato. Sta nelle cose,
adesso è proprio toccata a me, tanto vale accettare quanto ci è capitato.
Poi me ne torno lentamente alla carrozza, mi spingo sui binari utilizzando
un varco oltre la rete dopo alcune case cantoniere; mi dirigo verso una
costruzione di controllo delle ferrovie in mezzo allo spiazzo, poi piego da una
parte, e come tornando indietro scivolo via dietro al mio vagone immobile.
Sento dei rumori, così mi schiaccio a terra, e aspetto in questa posizione di
vedere se c’è qualcuno che sta arrivando proprio qui. Tutto fermo, non c’è
nessuno, mi rialzo, e passando dalla zona in ombra sotto ai fanali in alto,
raggiungo lo sportello. Apro, ma qualcuno è lì, dietro le mie spalle. Mi danno
una spinta, cado a terra, entrano in due o tre prima che io possa dire una sola
parola.
Sento che ridono mentre trovano tutte le mie cose, io mi rialzo e penso
subito di scappare via da qui, prima che le cose peggiorino per me. Inutile
parlare con gente come questa, non ascolterebbero neppure, mi darebbero un
colpo sulla testa e via, senza preoccuparsi di nient’altro. Aggiro la carrozza,
mi metto al riparo in un punto dove non posso essere visto, il freddo adesso si
fa proprio sentire, proprio ora che gustavo già sopra di me la carezza calda
del mio angolo sotto le coperte. Infine torno ad avvicinarmi allo sportello,
che è rimasto aperto. I tizi sono ancora dentro, hanno una lampada tascabile,
scrutano tutte le mie cose e gli scompartimenti, ma io prendo la chiave
triangolare, chiudo la portiera e subito la blocco. Poi con tutta calma torno
verso la stazione ferroviaria; al primo in divisa che riuscirò a trovare dirò
che ci sono delle persone in quel vagone, e che non è bello lasciare che i
barboni si approfittino così delle ferrovie statali.
Bruno Magnolfi
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