Non sono del tutto
disperato, anche se qualche volta mi sento davvero giù di corda. Il fatto di
dormire in un palazzo occupato dove ci sono quasi soltanto degli immigrati di
colore, non significa affatto che io abbia perso completamente la fiducia nella
mia capacità di rimettermi in piedi e ricominciare tutto daccapo. Mi sono
andate male diverse cose negli ultimi anni, ma questo in fondo non significa un
bel niente. Un vero lavoro credo non me lo darà mai nessuno alla mia età e
presentandomi così malridotto. Però riesco sempre a rimediare qualche spicciolo
dando una mano alle persone che mi conoscono per portare avanti qualche piccolo
trasloco, mettere in giro nelle cassette della posta o sotto ai tergicristallo
delle macchine ferme qualche pieghevole della pubblicità, o anche portare a
domicilio la spesa di qualche vecchietta per un piccolo supermercato di questo
quartiere. Sono cose semplici e pure legali, che non prevedono per me dei
grandi rischi.
Quando torno ad infilarmi tra le mie coperte nella
stanza dove ho sistemato tutte le mie cose, ritrovo per un attimo la persona
che sono sempre stata fin da quando ero un ragazzo. È una sensazione bellissima
ripensare per qualche attimo a tutte le possibilità che sono riuscito ad avere
durante questo lungo lasso di tempo: ciò che ho conosciuto, quello che ho
fatto, le cose che ho scansato, le persone che mi hanno voluto un po’ di bene,
quelle a cui in un modo o nell’altro sono stato più vicino. È un percorso
completo, ed in fondo soltanto io potrei averlo davvero intrapreso, con tutte
le mie colpe ed anche i miei difetti. Dura poco il momento di queste
riflessioni, poi cado subito nel sono profondo di chi trascina dentro di sé una
stanchezza che dura ormai da mesi, se non di più. Quando torno a svegliarmi non
vorrei per niente al mondo riaprire veramente gli occhi: però ci sono ancora i
miei pensieri, l’elaborazione continua di tutti i miei ricordi, la voglia
profonda di essere ancora una persona, non un rottame della vita come sono per
davvero.
Giro per la città, saluto chi mi saluta, chiedo
sempre una mano a coloro che incontro, ma non a tutti, soltanto a quelli che
non mostrano la faccia da avversario, che non hanno l’espressione di disgusto
per uno come me. Li riconosci subito quando li vedi: sono persone che forse vorrebbero
avere intorno soltanto individui del tutto identici a loro, nati nello stesso
luogo, con i medesimi pensieri, vestiti più o meno in modo simile, la solita
corporatura, gli stessi discorsi da portare avanti. Non importa, penso con
tolleranza; in fondo ognuno è libero di sentirsi come vuole, non può certo
essere uno come me a rimarcare delle differenze: tutte le persone hanno una
storia, ognuna di loro ha qualcosa da insegnare. Ci si aiuta tra di noi, quelli
che vivono ai margini di questa civiltà.
Ognuno è libero di intraprendere la strada che più
preferisce, alcuni si vanno ad infilare nel mondo della droga, altri progettano
rapine con in mano coltelli da cucina o taglierini per incutere paura. A me non
interessa, mi pare a volte di vivere soltanto per quei cinque minuti quando
sono da solo, prima di dormire; e tutto quanto ciò che sono, e sono stato,
improvvisamente mi viene incontro, e mi dice ogni volta qualcosa di nuovo, di
diverso, e che forse tutto quanto anche per me potrà essere migliore, magari
già domani. Per il resto accetto quello che mi è dato, e quando vado a mangiare
alla mensa dei poveri, ringrazio sempre chi mi serve, perché so che quella è
ancora una possibilità che mi viene data, un tentativo per mandare le cose
avanti, affinché tutti i miei sforzi per arrivare fino qui non risultino mai
del tutto vani. E poi perché alla fine ci sarà magari pure un senso alla
sofferenza estrema che mi ha messo così alla prova per tutto questo tempo.
Bruno Magnolfi
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