giovedì 2 dicembre 2010

I suoni tra le rocce.

           

            Non c’era molta strada da fare, in paese lo sapevano tutti: bastare prendere uno stretto viottolo e in poco più di mezz’ora si arrivava fino all’orlo del precipizio. Le rocce in quel punto apparivano sedimentarie, erose dal tempo, la vegetazione attorno lasciava tutto lo spazio a quell’enorme spaccatura in mezzo alla terra, e si rimaneva lì, a bocca aperta, a contemplare il fiumiciattolo che scorreva tra le pietre giù in fondo.
            Era affascinante quel luogo, ma nessuna strada arrivava da quelle parti: non c’era mai stato interesse da parte di alcuno per farne un luogo turistico, o un posto comunque da visitare; al contrario, si dava per scontato che fosse pericoloso avventurarsi da quelle parti, e insomma che non ci fosse alcun valore nel visionarie quelle rocce: era soltanto una fenditura profonda nel suolo, si pensava, che andava avanti per dei chilometri, senza nessuna positività.
            Era come se nella testa di tutti ci fosse qualcosa di strano, di diverso dalla logica: non si parlava quasi mai di quel posto dove qualcuno si avventurava ma solo in casi particolari, però la gente sapeva cosa c’era laggiù, conosceva bene quella rupe al margine delle colline a chiudere il passo, a tagliare in due quello spazio, come se intuisse perfettamente che iniziava un mondo diverso oltre quel precipizio, ed era bene evitarlo, come le cose dannose. Ma forse era soltanto una credenza, una di quelle dicerie di paese, qualcosa di cui certe volte si bisbigliava, ma soltanto in occasioni particolari.
            Le cose cambiarono solo per caso, un giorno qualsiasi, quando un ragazzo del paese, da solo, arrivò fino lì portandosi dietro la tromba che da qualche mese stava studiando. Il luogo era perfetto per suonare senza preoccuparsi di dare fastidio, da quelle parti non c’era nessuno, e l’eco che usciva fuori dal precipizio dava un tocco meraviglioso ad ogni nota. Ma qualcun altro aveva sentito quei suoni, dalla parte opposta della spaccatura, e si era affacciato alle rocce dalla parte di là, ad osservare e ad ascoltare il ragazzo e quel suo strumento.
            Si erano guardati, lui e quella persona, pur nella lontananza dello spazio aperto, poi il ragazzo aveva ripreso a suonare, e quello si era seduto sopra una pietra per ascoltarlo. La cosa si era ripetuta il pomeriggio seguente, e così ancora, fino a quando qualcun altro era andato ad ascoltare quelle note lunghe e lamentose che si perdevano nell’asprezza di tutte le rocce. Il ragazzo si era sentito importante, aveva iniziato poco per volta a modulare delle melodie particolari, qualcosa nato quasi in funzione di quel luogo, e tutte le persone che oramai arrivavano fin lì, nelle settimane a seguire, ognuno per suo conto, proprio per ascoltarlo, sembravano rapite da quei suoni, come da elementi magici che per straordinaria virtù riuscivano a riempire di bellezza tutta quella gola sassosa.
            Le cose andarono avanti per un certo tempo, ma senza che nessuno in paese sentisse la voglia di parlarne: era come se tutti coloro che arrivavano là, lo facessero sempre un po’ di nascosto, mimetizzandosi tra gli alberi e i cespugli vicini, restando separati, a volte anche ognuno dall’altro. Quando immobilizzarono il ragazzo mentre era intento a suonare, lo fecero solo in due o in tre, prendendolo da dietro, senza che lui potesse riuscire a capire chi fosse a strappargli di mano la tromba. E quando la vide volare giù dalla rupe, gli parve impossibile, come se non riuscisse a trovare nei suoi concittadini un solo motivo per un gesto del genere. Eppure, quando tornò disperato in paese, nessuno spese per lui una parola di solidarietà o di conforto: certe cose andavano prese così, sembrava dicessero tutti, inutile opporsi.

            Bruno Magnolfi

            

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