Il
mio lavoro è monotono. Resto seduto tutto il giorno a questa scrivania,
consulto delle carte, leggo certi documenti, metto un segno di spunta su ogni
modulo, compilato dal richiedente con i dati che servono, e poi li porto ad un
collega. Il mio ufficio è piccolo, senza alcuna caratteristica, c’è soltanto la
porta da un lato, e la finestra dall’altro; in mezzo la mia sedia, la scrivania
e un corposo schedario. Certe volte osservo la porzione di cielo dietro ai
vetri: immagino di sentire, sulla pelle, l’aria fresca che c’è là fuori, di
lasciarmi avvolgere dal bianco delle nuvole, poi torno con lo sguardo sopra ai
moduli.
A
metà mattina scendo al bar per un caffè, spesso vado con qualcuno dei colleghi:
si parla sempre delle solite cose, si affrontano gli argomenti più lontani
possibile dal nostro posto di lavoro, perché tra noi è quasi vietato in certi
orari, così ci raccontiamo qualche stupidaggine, tanto per far passare il
tempo, poi si torna alle nostre occupazioni. Sono tutti sposati i miei
colleghi, mentre io non lo sono, così certe volte mi prendono un po’ in giro, e
spesso per ridere dicono che la mia vita è quasi inutile.
Rientro
nel mio ufficio e torno a sedermi, i moduli sul piano della scrivania sono
ancora lì ad aspettarmi. Guardo fuori il cielo e lo scopro sempre bello, pieno
dello stesso fascino. I discorsi che a volte fanno gli altri non mi piacciono,
sembra che io viva soltanto per questo stupido lavoro, ma non è assolutamente
vero. Piacerebbe anche a me farmi una famiglia, ma non ho avuto l’occasione, o
forse quando c’è stata non ho saputo coglierla. Però mi sento differente da
tutti, loro parlano a volte di cose che a me neanche interessano.
Mi
concentro sul lavoro, ho visto il capoufficio lungo il corridoio, meglio non
distrarsi. Poi torno a fantasticare. Al pomeriggio delle giornate belle sulla
mia finestra arriva il sole. Lo guardo mentre lentamente gira, inserisce un
primo raggio dall’angolo del vetro, poi con calma va a schiarire tutto il
davanzale. Per me è una presenza, un ospite piacevole che rallegra di luce
tutta quella piccola stanza.
Un
giorno, tempo fa, ho spalancato i vetri durante un primo pomeriggio; ho
respirato a pieni polmoni quell’aria bella, piena di luce, e mi è venuta voglia
di tuffarmi dentro, di lasciarmi andare da questo ottavo piano, senza stare
troppo a pensare se ci fosse un motivo oppure no. Sono rimasto lì, indeciso, fino
a quando un collega non ha detto qualcosa alle mie spalle, interrompendo ogni
pensiero. E’ vero che qualche volta mi sento inutile, forse grigio, perfino in
questo lavoro che sembra non andare mai da alcuna parte.
A
fine orario ognuno se ne va per la sua strada, i miei colleghi raggiungono in
fretta le famiglie, io al contrario mi attardo spesso lungo i marciapiedi della
zona, oppure vado a sedermi nello stesso bar dove al mattino andiamo coi
colleghi. Sono andato a vedere il punto esatto sotto alla finestra del mio
ufficio, quello dove andrei a cadere. Ho immaginato la parabola del mio corpo nell’aria
della strada, ho sentito lo schianto, ho verificato tutto, fino ai miei ultimi
pensieri durante la caduta. Mi piace pensare che rimanga comunque per me quella
possibilità, quella scelta vicina, a portata di mano, anche se non vorrò mai
dare la soddisfazione a qualcuno di pensare che era vero, che mi sentivo
proprio inutile, come tutti dicevano: non racconterò mai a nessuno che certe
volte mi sento proprio come se fossi già steso sopra al marciapiede, come se avessi
già spiccato il volo per sfracellarmi a terra.
Bruno
Magnolfi
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