mercoledì 8 dicembre 2010

Per i colleghi che non volano.

            

            Il mio lavoro è monotono. Resto seduto tutto il giorno a questa scrivania, consulto delle carte, leggo certi documenti, metto un segno di spunta su ogni modulo, compilato dal richiedente con i dati che servono, e poi li porto ad un collega. Il mio ufficio è piccolo, senza alcuna caratteristica, c’è soltanto la porta da un lato, e la finestra dall’altro; in mezzo la mia sedia, la scrivania e un corposo schedario. Certe volte osservo la porzione di cielo dietro ai vetri: immagino di sentire, sulla pelle, l’aria fresca che c’è là fuori, di lasciarmi avvolgere dal bianco delle nuvole, poi torno con lo sguardo sopra ai moduli.
            A metà mattina scendo al bar per un caffè, spesso vado con qualcuno dei colleghi: si parla sempre delle solite cose, si affrontano gli argomenti più lontani possibile dal nostro posto di lavoro, perché tra noi è quasi vietato in certi orari, così ci raccontiamo qualche stupidaggine, tanto per far passare il tempo, poi si torna alle nostre occupazioni. Sono tutti sposati i miei colleghi, mentre io non lo sono, così certe volte mi prendono un po’ in giro, e spesso per ridere dicono che la mia vita è quasi inutile.
            Rientro nel mio ufficio e torno a sedermi, i moduli sul piano della scrivania sono ancora lì ad aspettarmi. Guardo fuori il cielo e lo scopro sempre bello, pieno dello stesso fascino. I discorsi che a volte fanno gli altri non mi piacciono, sembra che io viva soltanto per questo stupido lavoro, ma non è assolutamente vero. Piacerebbe anche a me farmi una famiglia, ma non ho avuto l’occasione, o forse quando c’è stata non ho saputo coglierla. Però mi sento differente da tutti, loro parlano a volte di cose che a me neanche interessano.
            Mi concentro sul lavoro, ho visto il capoufficio lungo il corridoio, meglio non distrarsi. Poi torno a fantasticare. Al pomeriggio delle giornate belle sulla mia finestra arriva il sole. Lo guardo mentre lentamente gira, inserisce un primo raggio dall’angolo del vetro, poi con calma va a schiarire tutto il davanzale. Per me è una presenza, un ospite piacevole che rallegra di luce tutta quella piccola stanza.
            Un giorno, tempo fa, ho spalancato i vetri durante un primo pomeriggio; ho respirato a pieni polmoni quell’aria bella, piena di luce, e mi è venuta voglia di tuffarmi dentro, di lasciarmi andare da questo ottavo piano, senza stare troppo a pensare se ci fosse un motivo oppure no. Sono rimasto lì, indeciso, fino a quando un collega non ha detto qualcosa alle mie spalle, interrompendo ogni pensiero. E’ vero che qualche volta mi sento inutile, forse grigio, perfino in questo lavoro che sembra non andare mai da alcuna parte.
            A fine orario ognuno se ne va per la sua strada, i miei colleghi raggiungono in fretta le famiglie, io al contrario mi attardo spesso lungo i marciapiedi della zona, oppure vado a sedermi nello stesso bar dove al mattino andiamo coi colleghi. Sono andato a vedere il punto esatto sotto alla finestra del mio ufficio, quello dove andrei a cadere. Ho immaginato la parabola del mio corpo nell’aria della strada, ho sentito lo schianto, ho verificato tutto, fino ai miei ultimi pensieri durante la caduta. Mi piace pensare che rimanga comunque per me quella possibilità, quella scelta vicina, a portata di mano, anche se non vorrò mai dare la soddisfazione a qualcuno di pensare che era vero, che mi sentivo proprio inutile, come tutti dicevano: non racconterò mai a nessuno che certe volte mi sento proprio come se fossi già steso sopra al marciapiede, come se avessi già spiccato il volo per sfracellarmi a terra.
           

            Bruno Magnolfi

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