Ho visto la mia
immagine riflessa nella vetrina, mentre passavo davanti ad un luminoso negozio
di calzature. Mi sono soffermata, ho guardato ogni particolare più evidente, ed
ho pensato con leggerezza che la persona che avevo di fronte in fondo mi era
quasi un’estranea. Così ho proseguito a camminare con la mente svagata e
l’impressione di essere praticamente invisibile agli altri, almeno nella forma
che mi è sempre stata propria. Ho riflettuto che non ci vuole poi molto ad
essere astratti, è sufficiente sentirsi fuori dalla normalità di ogni giorno,
assumere un’espressione diversa da quella di sempre, e poi mescolarsi tra la
gente, sprofondare rapidamente tra mille maschere, come una piccola entità immersa
in un liquido composto da moltissimi elementi.
Ho svoltato
velocemente per certe strade che generalmente non frequento, ed anche se ho
notato un paio di persone che vagamente conosco per averle viste già qualche
volta in giro, nessuno però ha fissato il proprio sguardo esattamente su di me,
proprio come se non fossi stata presente su quel marciapiede. Dopo poco sono
tornata a specchiarmi in un’altra vetrina, ed ho maggiormente riscontrato, con una
prevalente certezza, che la persona di fronte ai miei occhi era proprio
un’altra, rispetto a quella cui sono da sempre abituata. Mi è venuto da
sorridere, naturalmente, ed ho cercato di pensare verso quale luogo dirigermi,
estranea a tutto come mi ritrovavo in quel determinato momento, anche se non mi
è saltato dentro la mente nessun luogo.
Così sono entrata
dentro ad un caffè piuttosto elegante, mi sono seduta ad un tavolino, e dal
cameriere mi sono fatta servire qualcosa, tanto per trascorrere almeno un po’
di tempo. Che cosa mi interessa, ho pensato, in questo continuo cercare di
essere costantemente e soltanto quella che sono; cioè: per quale motivo non
deve essere possibile per me modificare opinione, abitudini, comportamenti,
modi di essere e di mostrarsi. In fondo la coerenza non è più un grande valore,
ormai appare ampiamente superato, e restare invariati lasciando soltanto gli
anni e l’età a fare la differenza, è qualcosa che ha il sapore solamente della
noia e delle incapacità propositive. Voglio essere un’altra, mi sono detta
subito; così in un attimo, osservando fuori dai vetri, mi sono impersonata in
una donna che stava chiedendo a qualcuno delle informazioni lungo quella strada,
perciò mi sono alzata, ho pagato al cameriere quanto dovuto, e poi, uscendo dal
locale, ho iniziato subito a seguire ad una distanza piuttosto ravvicinata quella
persona, cercando di carpirne l’indole, gli atteggiamenti, la maniera di
camminare, come fossero prodromi delle proprie idee.
Ho cercato di
fermarla, ad un certo punto: l’ho accostata ad un semaforo pedonale, mentre era
ferma, nell’attesa del permesso tecnologico per attraversare quella strada
trafficata, ed invece di chiederle qualcosa, ho detto ad alta voce, a lei e a
chi c’era intorno a noi, che ero stufa di camminare nel completo anonimato, di
essere oramai soltanto un numero, una manciata di secondi sufficienti soltanto
a percorrere l’incrocio, un’impostazione logica dentro ad un microprocessore
che non teneva conto di chi siamo, delle nostre esigenze, dei nostri bisogni
più concreti. Lei si è voltata di colpo verso di me, mi ha guardato come
mostrando con un sorriso una certa evidente solidarietà, e poi ha detto
soltanto che anche per lei era un’assurdità incarnare una persona di questo
tempo; che non si sentiva adeguata a questi canoni, che non avrebbe mai voluto essere
così, anche se non trovava nessuna possibilità di sbocco. Le ho sorriso, appena
per un attimo. Poi è scattato il colore verde del passaggio pedonale, ed
ambedue ci siamo indirizzate ognuna per la propria strada.
Bruno Magnolfi
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