lunedì 6 gennaio 2020

Astrazione momentanea.


  

            Ho visto la mia immagine riflessa nella vetrina, mentre passavo davanti ad un luminoso negozio di calzature. Mi sono soffermata, ho guardato ogni particolare più evidente, ed ho pensato con leggerezza che la persona che avevo di fronte in fondo mi era quasi un’estranea. Così ho proseguito a camminare con la mente svagata e l’impressione di essere praticamente invisibile agli altri, almeno nella forma che mi è sempre stata propria. Ho riflettuto che non ci vuole poi molto ad essere astratti, è sufficiente sentirsi fuori dalla normalità di ogni giorno, assumere un’espressione diversa da quella di sempre, e poi mescolarsi tra la gente, sprofondare rapidamente tra mille maschere, come una piccola entità immersa in un liquido composto da moltissimi elementi.
            Ho svoltato velocemente per certe strade che generalmente non frequento, ed anche se ho notato un paio di persone che vagamente conosco per averle viste già qualche volta in giro, nessuno però ha fissato il proprio sguardo esattamente su di me, proprio come se non fossi stata presente su quel marciapiede. Dopo poco sono tornata a specchiarmi in un’altra vetrina, ed ho maggiormente riscontrato, con una prevalente certezza, che la persona di fronte ai miei occhi era proprio un’altra, rispetto a quella cui sono da sempre abituata. Mi è venuto da sorridere, naturalmente, ed ho cercato di pensare verso quale luogo dirigermi, estranea a tutto come mi ritrovavo in quel determinato momento, anche se non mi è saltato dentro la mente nessun luogo.
            Così sono entrata dentro ad un caffè piuttosto elegante, mi sono seduta ad un tavolino, e dal cameriere mi sono fatta servire qualcosa, tanto per trascorrere almeno un po’ di tempo. Che cosa mi interessa, ho pensato, in questo continuo cercare di essere costantemente e soltanto quella che sono; cioè: per quale motivo non deve essere possibile per me modificare opinione, abitudini, comportamenti, modi di essere e di mostrarsi. In fondo la coerenza non è più un grande valore, ormai appare ampiamente superato, e restare invariati lasciando soltanto gli anni e l’età a fare la differenza, è qualcosa che ha il sapore solamente della noia e delle incapacità propositive. Voglio essere un’altra, mi sono detta subito; così in un attimo, osservando fuori dai vetri, mi sono impersonata in una donna che stava chiedendo a qualcuno delle informazioni lungo quella strada, perciò mi sono alzata, ho pagato al cameriere quanto dovuto, e poi, uscendo dal locale, ho iniziato subito a seguire ad una distanza piuttosto ravvicinata quella persona, cercando di carpirne l’indole, gli atteggiamenti, la maniera di camminare, come fossero prodromi delle proprie idee.
            Ho cercato di fermarla, ad un certo punto: l’ho accostata ad un semaforo pedonale, mentre era ferma, nell’attesa del permesso tecnologico per attraversare quella strada trafficata, ed invece di chiederle qualcosa, ho detto ad alta voce, a lei e a chi c’era intorno a noi, che ero stufa di camminare nel completo anonimato, di essere oramai soltanto un numero, una manciata di secondi sufficienti soltanto a percorrere l’incrocio, un’impostazione logica dentro ad un microprocessore che non teneva conto di chi siamo, delle nostre esigenze, dei nostri bisogni più concreti. Lei si è voltata di colpo verso di me, mi ha guardato come mostrando con un sorriso una certa evidente solidarietà, e poi ha detto soltanto che anche per lei era un’assurdità incarnare una persona di questo tempo; che non si sentiva adeguata a questi canoni, che non avrebbe mai voluto essere così, anche se non trovava nessuna possibilità di sbocco. Le ho sorriso, appena per un attimo. Poi è scattato il colore verde del passaggio pedonale, ed ambedue ci siamo indirizzate ognuna per la propria strada.     

            Bruno Magnolfi

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